Le mani della mafia catanese in Comune e nel tribunale

Raffica di condanne: 57 anni di carcere a sei imputati In cella gli emissari del clan Laudani e un faccendiere

Le mani della mafia catanese in Comune e nel tribunale

Un processo lampo, come si possono fare quando ce n'è la voglia e la capacità: appena un anno e mezzo dagli arresti alla sentenza di primo grado, emessa ieri dalla Settima sezione del tribunale. Ed è una sentenza che conferma gli scenari più foschi evitati dall'inchiesta del pm Paolo Storari: era per conto della mafia catanese che gli uomini guidati dal businessman Alessandro Fazio, una «terra di mezzo» fatta di colletti bianchi e pregiudicati, era sbarcata nel cuore di Milano. Era per finanziare il clan Laudati che Fazio e i suoi erano penetrati fin dentro Palazzo Marino, avevano tessuto alleanze altolocate, erano arrivati fino al capo dei vigili urbani, erano entrati dentro il palazzo di giustizia e nei supermercati della Lidl. La mafia entra a Milano come un coltello entra nel burro, questa è la triste verità raccontata da questa indagine e da questo processo.

Ieri il giudice Carla Galli impiega quasi venti minuti a leggere la sentenza che distribuisce in totale cinquantasette anni di carcere ai sei imputati condannati. Un solo assolto, l'ex capo aerea della Lidl Simone Soriano che per la Procura si era messo a disposizione del clan per procurare gli incarichi di vigilanza nei supermercati della catena austriaca. Per gli altri sono batoste che vanno anche aldilà delle richieste della Procura. La più pesante a Luigi Alecci, il più navigato del mondo della malavita: sedici anni di carcere e la qualifica di «delinquente abituale». Subito dietro, con otto anni e mezzo, Orazio Di Mauro, che la Procura considera la lunga mano del clan Laudani e l'uomo simbolo della vicenda: Alessandro Fazio, giovane, faccia pulita, che ieri si presenta in gabbia in giacca e camicia immacolata, e ascolta apparentemente impassibile la sentenza.

Era lui, insieme al fratello Nicola, alla testa della Securpolice, l'azienda che era riuscita a farsi assegnare l'appalto per la vigilanza agli ingressi del tribunale: uomini di Fazio avevano così mano libera nel tempio della giustizia, entravano senza controlli, controllavano i varchi. E con la stessa disinvoltura, dopo avere arruolato al suo servizio un ex sindacalista della Uil, Domenico Palmieri, uomo di mille esperienze e di mille rapporti, Fazio era riuscito a penetrare nei gangli del Comune, corrompendo due funzionarie e incontrando l'ex assessore Franco D'Alfonso e il capo dei «ghisa» Antonio Barbato. A Barbato, Fazio propone i suoi servigi per far pedinare un sindacalista rompiscatole: un incontro che è costato al comandante la sua poltrona.

Storia di ordinaria corruzione, soliti giri di truffe fiscali, fatture false, quattrini in nero? O invece storia esemplare di mafia? Intorno a questo interrogativo si è giocato il processo, almeno fino a quando due imputati hanno deciso di rompere il muro del silenzio. Il 31 maggio chiede la parola Giacomo Politi, uno dei gregari della banda, e spiega al tribunale che sì, Fazio rendeva conto e mandava quattrini ai Laudani, a Catania. Sette giorni dopo anche Emanuele Micelotta ribadisce il concetto. Dalle gabbie sui due piovono occhiatacce e minacce, per la Procura è un assist verso la vittoria. I due, Politi e Micelotta, ieri portano a casa le attenuanti generiche. E nella sentenza il tribunale offre alle tesi della accusa la ratifica più netta: il primo capo d'accusa, quello di associazione per delinquere, viene aggravato dall'avere agito «per finalità mafiosa».

Era per finanziare Cosa Nostra che Fazio e i suoi avevano messo in piedi la rete di cooperative fantasma e di contatti ad alto livello che li ha portati nel cuore di quella che una volta si faceva chiamare «capitale morale».

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