«Laureato e qualificato impartisce lezioni di italiano e inglese in zona Sarpi»: la scritta è in italiano e in cinese ed è attaccata con lo scotch al vaso di fiori nel bar che accoglie i clienti dell'Oriental Mall, il primo ipermercato cinese di Milano. I commessi, in effetti, non parlano l'italiano, a parte alcuni responsabili delle varie aree, eppure di italiani se ne vedono abbastanza. L'ipermercato ha aperto il 25 luglio all'angolo tra via Sarpi e via Rosmini, ha due entrate ed è alto due piani. I gestori sono i fratelli Michele e Francesco Hu, cinesi di seconda generazione, studenti della «Bocconi» ed ex broker finanziari. A tre mesi dall'apertura, il grande magazzino sembra aver ingranato bene, secondo il dogma, che campeggia in piccole locandine e adesivi verticali un po' ovunque, della «qualità e convenienza». Il mall è di due piani, ma il secondo, che dovrebbe ospitare un centro benessere, non è ancora aperto. Al piano terra ci sono diversi negozi di abbigliamento e bigiotteria, con il bar e l'alimentari «Hu Food». Al primo piano l'«Iper Hu», che vende un po' di tutto, tranne prodotti alimentari. Al secondo piano si incontrano italiani dal volto disteso: «Venendo qui troviamo più o meno i prodotti e le marche che prendiamo altrove, ma riusciamo sempre a risparmiare qualcosa», dicono due signori di mezz'età che si dichiarano imprenditori del settore edile, uno dei quali con un golfino in spalla, pagato 20 euro alla boutique sottostante. L'impressione è quella che può dare un grande magazzino dalla luce fioca, ma dignitoso. Molte adolescenti, soprattutto cinesi, frequentano il bar e i negozi del piano terra. Lì si trovano marche vagamente allusive, H&F su tutte, ma mettiamola così: se l'Italia si è costruita una reputazione di eccellenze fatta anche di alcuni stereotipi, come la pizza e il mandolino, la Cina se n'è costruita una fatta di lavoro a testa bassa, suggellata dallo stereotipo del falso, del finto falso e del contraffatto. È come se giocasse con la retorica.
Il posto dove l'aria si fa meno distesa è quello dedicato al cibo, «Hu Foods». La difficoltà linguistica impedisce di avere dei chiarimenti sui prodotti, e così se anche un terzo dei clienti incontrati è italiano, si tratta quasi sempre di persone arrivate per la prima volta, sull'onda della curiosità. Il volto dei milanesi si fa dubbioso di fronte alle uova di anatra salate, al banco della carne o di fronte alla pescheria, con i granchi tropicali, il pesce «atlantico» e le orate. Il prezzo è quasi imbattibile, ma la diffidenza è forte, misteri della schizofrenia delle leggi europee sull'etichettatura dei prodotti freschi. «È la prima volta che vengo, perché me ne hanno parlato, vediamo, non è che non mi fido» è la frase ripetuta più spesso. C'è, poi, chi viene per acquistare solo prodotti di marca o già introdotti dalla grande distribuzione italiana, come la salsa di soia giapponese e il burro di arachidi della multinazionale francese.
Le traduzioni fanno scappare qualche sorriso. Sembra quasi che l'etichettatura sia stata realizzata da un traduttore automatico frettoloso. Tra i banconi si può leggere delle «striscie» di manzo a fette, per esempio. Ma il culmine dell'ilarità, ben oltre quello che accadeva per l'imitazione delle marche di alcolici nei discount, è raggiunto dalla frettolosa traduzione della versione italiana del liquore al ginseng.
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