Padre violento resta in Italia Per il Tar non si può cacciare

Annullato il provvedimento della questura che, dopo la condanna, respinse la richiesta di soggiorno dell'uomo

Padre violento resta in Italia Per il Tar non si può cacciare

Se un padre violento è stato condannato per maltrattamenti in famiglia non si può cacciarlo dall'Italia: così potrà restare vicino alla famiglia. Questa è la paradossale conclusione cui sono arrivati i giudici del Tar, che con questa motivazione hanno annullato il provvedimento con cui la questura, dopo che la sentenza era diventata definitiva, aveva respinto la richiesta di permesso di soggiorno dell'uomo. Che adesso potrà restare in Italia e continuare a svolgere il suo ruolo di capofamiglia nel modo che riterrà più opportuno.

Ci sono voluti quasi cinque anni perché il tribunale amministrativo prendesse una decisione sul ricorso presentato dal signore in questione, un filippino regolarmente in Italia dal 1990 con un permesso per «soggiornanti di lungo periodo». Nel luglio del 2014 la questura aveva revocato il permesso in seguito alla condanna dell'uomo, «il quale - si legge nella sentenza - si era spesso abbandonato ad atti di violenza nei confronti della moglie e delle figlie dopo avere abusato di sostanze alcoliche». La richiesta di sospendere provvisoriamente l'espulsione era stata respinta e questo sembrava indicare che i giudici non erano granché convinti delle ragioni dell'uomo. Invece ieri la quarta sezione del Tar ha accolto parzialmente il ricorso del filippino: non potrà avere un permesso di lungo soggiorno ma la questura dovrà comunque rilasciargli un permesso che gli consenta di restare in Italia.

Il permesso di lunga durata, scrivono i giudici, «presuppone una piena integrazione del cittadino straniero nel tessuto sociale italiano e non può pertanto essere rilasciato a soggetti che hanno posto in essere condotte pericolose, tali da suscitare allarme sociale». Andrà però concesso «altro titolo di soggiorno», perché la condanna è frutto di un patteggiamento e perché «l'episodio di violenza che vi ha dato causa appare tutto sommato circoscritto e isolato», e il condannato «svolge regolare attività lavorativa in Italia».

Ma l'argomento decisivo è la necessità che il signore resti vicino alla sua famiglia. «In Italia risiedono due figlie del ricorrente, una delle quali in età scolare», scrivono i giudici. E ricordano una sentenza della Corte Costituzionale che impone in questi casi «un concreto bilanciamento di interessi avendo il cittadino straniero legami familiari nel territorio dello Stato».

Peccato che la sentenza della Consulta non riguardasse affatto un imputato di maltrattamenti in famiglia, ma uno straniero accusato di appropriazione indebita e reati di droga. Il diritto dei familiari ad averlo vicino venne considerato più importante della pericolosità sociale. Ora lo stesso criterio viene applicato a un signore che i familiari avevano denunciato alla magistratura.

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