Palestro, buio sul massacro La strage è senza un perché

Cinque vittime e un mistero irrisolto su obiettivi e responsabilità La versione dei pentiti all'ultimo processo: «Destabilizzare il Paese»

Un massacro senza un perché, una ricostruzione con troppi buchi. Il ventiduesimo anniversario della strage di via Palestro cade oggi, a meno di un mese dalla sentenza della Corte d'assise di Milano che ha assolto l'ultimo uomo ancora sotto processo per l'attentato che la notte del 27 luglio 1993 piombò Milano nell'orrore e nell'incredulità. Cinque morti: quattro delle forze dell'ordine, e un povero senza tetto che dormiva su una panchina. Proprio l'esito dell'ultimo processo conferma la difficoltà di capire davvero le motivazioni che portarono Cosa Nostra, tra la primavera e l'estate 1993, ad imboccare la cosiddetta «strategia stragista»: una svolta senza precedenti nelle scelte della Cupola mafiosa, presa oltretutto quando il suo esponente più feroce, Totò Riina, era ormai in carcere.

In via Palestro non doveva morire nessuno: questa è la versione che il più accreditato tra i «pentiti» di mafia interrogati sulla strage, Gaspare Spatuzza, ha fornito anche di recente nel corso dei processi. É una versione che fa acqua, anche perché appena due mesi prima Cosa Nostra aveva commesso un altro «errore», uccidendo cinque persone a Firenze, invia dei Georgofili. Anche lì, stando ai «pentiti», il piano era di danneggiare solo i monumenti, in particolare la Galleria degli Uffizi: eppure, quando si trattò di bissare l'impresa a Milano, nessuno si preoccupò di evitare perdite di vite umane, magari avvisando il 113 della presenza della autobomba piazzata nei pressi del Padiglione di arte contemporanea. Invece la Uno imbottita di tritolo venne notata per via di un filo di fumo, vigili urbani e pompieri accorsero sul posto e vennero investiti in pieno dallo scoppio. «Quello che avvenne erano conseguenze non cercate», dice Gaspare Spatuzza.

Ma a restare opaco, nella ricostruzione giudiziaria, è anche il movente che avrebbe spinto i vertici della famiglia mafiosa di Brancaccio a prendere di mira il patrimonio artistico del paese: scegliendo («usavamo i depliant turistici») tanto obiettivi celebri come gli Uffizi che bersagli poco noti come il Pac di via Palestro. Quali obiettivi, quali rivendicazioni, quali risultati? Buio fitto. Nell'ultimo processo milanese alcuni pentiti hanno parlato genericamente del tentativo di Cosa Nostra di «destabilizzare il paese», altri hanno collegato la bomba alla presunta trattativa tra mafia e Stato sull'allentamento del carcere duro per i boss un paio di pentiti (Giovanni Brusca e Gioacchino La Barbera) si sono spinti a dire che i musei vennero individuati come obiettivo su indicazione di tale Paolo Bellini, neofascista, «che diceva di avere contatti con un generale dei carabinieri che in cambio dell'aiuto per recuperare alcune opere d'arte rubate in Sicilia, avrebbe potuto fare dei favori ai detenuti»: e le bombe di Firenze e Milano sarebbero state messe «per avere più potere contrattuale».

In questa nebbia restano avvolti anche i dettagli operativi della strage di via Palestro: per avere portato da Arluno fin davanti al Pac l'autobomba sono stati condannati all'ergastolo i fratelli Giovanni e Tommaso Formoso, ma

poi Spatuzza ha spiegato che uno dei due non c'entrava niente; e Marcello Tutino, indicato invece da Spatuzza come colui che aveva rubato la Fiat da imbottire di esplosivo, è stato assolto «per non avere commesso il fatto».

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