Cronaca locale

«Il pallone e i ricordi di papà? Preferisco portarli a teatro»

Il figlio dell'indimenticabile terzino dell'Inter porta in scena «La Tribù del calcio», una metafora della vita

Ferruccio Gattuso

Provaci a stare lontano dal pallone se ti chiami Facchetti. Provaci se non sei un Facchetti qualunque ma proprio quello, figlio del grande Giacinto. Il pallone rotolerà verso di te ovunque penserai di nasconderti. Nessun dribbling, nessun doppio passo ti servirà: quello ti viene incontro. Ed ecco perché Gianfelice Facchetti nella Tribù del Calcio come si intitola lo spettacolo che lui stesso porta in scena in Campo Teatrale da questa sera al 19 gennaio (ore 21, giovedì 16 ore 20.30, domenica 19 ore 18.30, ingresso 20 euro, info 02.26.11.31.33) ci è entrato da subito.

Appunto, da quando precisamente?

«Dalla nascita, alla lettera. Lo scrittore Giovanni Arpino mi inserì nell'epilogo del suo Azzurro Tenebra', racconto sui Mondiali di calcio del 1974, che per noi italiani non furono fortunati. Il libro finisce con Arpino in clinica perché sta nascendo il figlio del suo amico Giacinto Facchetti».

La parabola dal calcio al teatro è però una di quelle imprevedibili, come quelle delle punizioni a foglia morta di Mariolino Corso, compagno di papà.

«Si, vero. Diciamo che ho giocato nelle giovanili dell'Atalanta, come portiere. E anche nella Nazionale Under15. Ma a ventun anni ho smesso. Ci volevano altre convinzioni. E poi mi piaceva il teatro, scrivere».

Di cosa parla «La Tribù del Calcio»?

«Di questo ma anche di cose più importanti. L'idea nasce dall'omonimo saggio dell'etologo Desmond Morris, che tutti conoscono per La scimmia nuda. Il suo spunto antropologico va a fondo del segreto del calcio: la sua capacità di rendere metafora pulsioni, anche distruttive, della nostra specie. Io aggiungo i ricordi, e poi c'è un gruppo musicale con me in scena, La Banda del Fuorigioco».

A proposito di ricordi: qual è quello più vivo di suo padre Giacinto, bandiera della Grande Inter, colonna della Nazionale?

«Il ricordo al quale mi piace tornare come a un luogo confortevole è quello che vede me bambino a bordo campo, mentre guardo papà e gli altri giganti che si allenano. Il prato, il rumore del pallone. Da quando papà è scomparso, devo dire che i ricordi sono venuti a me come una risacca del mare, lenta e costante. E poi spuntano le foto: mesi fa ne ho trovato una con Giacinto e Mohammed Alì».

Quali esempi sportivi cita nello spettacolo?

«Quello che preferisco è l'uruguaiano Alcides Ghiggia, autore del gol che fece perdere al Brasile i Mondiali del 1950: fu il primo avversario di mio padre in serie A. Poi non posso evitare di parlare di Pelè, il più grande. Era un buon amico di papà, tra l'altro».

Facchetti, Inter, Milano: il suo rapporto con la città è felice?

«Da sempre. Ho vissuto a lungo a Cassano d'Adda ma da vent'anni sono a Milano. Ciò non toglie che mi sia sempre sentito milanese. Ho conosciuto qui mia moglie, a San Carpoforo in Brera, ho vissuto a San Siro, Porta Romana, ora sono a Porta Venezia.

A me e a papà questa città ha dato tutto».

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