Le parole che non avrebbe detto il commento 2

di Carlo Maria Lomartire

Lo sanno anche loro, gli adulatori iperbolici di queste ore, che al cardinale Carlo Maria Martini tanta enfasi, tanta retorica, tante pagine di giornale, insomma tanto conformismo non avrebbe fatto piacere. E non solo per l'umiltà che dovrebbe essere la prima delle virtù cristiane, ma anche, più banalmente e più profanamente, per una questione di buon gusto. E Martini era certamente persona di buon gusto. Anche per questo avrebbe respinto con fastidio la surrettizia e un po' volgare strumentalizzazione politica che è stata fatta della sua figura e della sua morte, rappresentando la sua domanda di rinnovamento della Chiesa, insomma un certo suo «progressismo» ecclesiale - non da tutti i cattolici condiviso - come un progressismo politico. Tanto da essere spesso utilizzato - probabilmente anche contro la sua volontà - nella piccola bottega della politica milanese. Fortunatamente senza arrivare ai fastidiosi eccessi raggiunti con il suo successore Tettamanzi, che invece a queste strumentalizzazioni non si sottraeva, anzi. Certe enfatiche capriole, che spesso hanno sfiorato il ridicolo, non si contano: il laicissimo miliardario rosso Guido Rossi ha detto che leggendo Martini «mi sembrava di leggere Pico della Mirandola, non un cardinale». Pico della Mirandola?! E un giornalista del Tg3 ha definito il porporato «l'uomo più amato di Milano». E ancora: «Era uomo del popolo». Ecco di Martini, aristocratico, coltissimo e ieratico, tutto si può dire tranne questo. Certo era molto popolare ma non uomo del popolo
È bene rimuovere subito un possibile equivoco: Martini è stato sicuramente uno dei più grandi pastori dell'arcidiocesi ambrosiana, la più grande del mondo. Ne sono convinto e trovo perfino fuori luogo spiegare perché. E se talvolta non riuscivo a condividere alcune sue idee, proprio quel certo suo presunto «progressismo», era un mio limite. Questo però non mi esime dal trovare esageratamente enfatiche, stucchevoli, retoriche o quanto meno eccessi editoriali le decine di pagine di lodi sperticate che alcuni quotidiani hanno voluto dedicare alla figura del cardinale. Arrivando perfino a chiedere che ai funerali venisse il Papa: richiesta talmente fuori misura (non mi pare che sia mai accaduto che un Pontefice lasci Roma per andare ai funerali di un vescovo, per quanto illustre), talmente eccessiva da suonare come una provocazione. Insomma, la sensazione è che da qualche parte si sia voluto presentare Martini come figura alternativa al Papa: il leader del cattolicesimo progressista contro quello conservatore.
Come pure lascia sinceramente perplessi la decisione della Rai di seguire con la sua rete ammiraglia i funerali dell'illustre gesuita. Popolare, stimato e amato sì, certo. Ma - è bene tenerlo presente - non tutti i cattolici e non tutti i milanesi, legittimamente, ne condividevano tutte le idee e vi si riconoscevano. «Stimato e amato anche da laici e non credenti», ripete la retorica celebrativa: forse è vero, come pure è vero che molti laici e non credenti non condividevano quel suo «progressismo». Certo, la lunghe code di gente - «non solo credenti», si insiste - che per due giorni hanno attraversato piazza Duomo, con ore di attese, e la folla sotto la pioggia ai suoi funerali, per rendergli l'ultimo omaggio ne testimoniano la popolarità, indubbiamente amplificata da tanta enfasi mediatica.

Ma proprio tutti questi adulatori iperbolici sembrano ignorare il motto che Martini ha tratto da Gregorio Magno: «Pro veritate adversa diligere»", cioè «cercare la verità nelle contraddizioni», dunque non nel conformismo.

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