Cronaca locale

La preghiera islamica? Nell’oratorio parrocchiale

Primo giorno di Ramadan, mese sacro di digiuno e preghiere per 50mila musulmani. Una comunità di abusivi e precari. Perché Milano non ha una moschea, ma una miriade di centri «culturali» di fatto trasformati in luoghi di culto. Piccoli, inadeguati, insicuri, molesti per i vicini: seminterrati, palestre, garage, capannoni ed ex scuole. La novità è l’oratorio-moschea sperimentato ieri in via Padova.
La Casa della cultura islamica, prevedendo un flusso enorme di fedeli, ha chiuso il centro al civico 144 e dirottato la preghiera del venerdì - solenne vigilia del mese sacro - nel campo sportivo dell’oratorio di San Giovanni Crisostomo in via Cambini, parrocchia con cui da anni intrattiene rapporti di buon vicinato. Alle 13 e 30 i fedeli (2mila secondo il centro) si sono inginocchiati verso la Mecca pregando nel terreno della chiesa. Una replica, concertata e consueta, di quella «invasione di piazza Duomo» che tanto ha fatto discutere alcuni mesi fa.
«Lo abbiamo fatto altre volte - spiega il parroco, Don Piero - è una scelta presa in pieno accordo con i miei superiori». «Un servizio alla cittadinanza - di questo si tratta secondo il sacerdote - perché senza il nostro aiuto, con il Comune che ha chiuso le palestre, anche loro si troverebbero in strada». «Ho detto che avrei preferito che la richiesta fosse giunta dal Comune - aggiunge Don Piero - ma non è mai arrivata». Comunque è «una scelta di civismo - spiega Don Piero - ma anche di rispetto per una comunità rispettosa e moderata, che non deve essere ostacolata ma aiutata». Con una moschea? «Evidentemente sarebbe giusto e responsabile, lo prevede la Costituzione». Il centro ha chiesto ospitalità anche per Ramadan, ma la ripresa dell’attività non consente di dargliela. Nel centro di via Padova la preoccupazione di non riuscire a contenere il flusso di fedeli è forte. La parrocchia ha sopperito ad agosto. Per il Ramadan la palestra comunale di via Cambini è troppo costosa (13mila euro per un mese) e poco capiente (200 posti al massimo). I dirigenti del centro sono preoccupati: «Sarà un macello» prevede il presidente Enzo Adamo Venturini. C’è anche irritazione per le attenzioni rivolte al centro di viale Jenner: «Non vogliamo interferire ma siamo su piani diversi. Loro fanno rumore, noi siamo per un Islam italiano e per il rispetto delle regole».
Non molto lontano, intanto, sempre in via Padova ma al numero 366, un altro gruppo del Centro islamico si è ritrovato a pregare nell’ex palazzina Aem di Cascina Gobba, un immobile comprato con la raccolta fondi dei fedeli e intestato ad Al Waqf, ente di gestione dei beni islamici a cui fa capo gran parte del patrimonio immobiliare dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche italiane. La spaccatura del centro è dipesa proprio dalla scelta di utilizzare la palazzina prima di avere i necessari permessi del Comune, che ha bocciato il progetto presentato per adibire a centro di cultura e preghiera quel capannone (1000 metri) circondato da altri 2mila metri di area edificabile. L’ex imam di via Padova l’aveva detto al Giornale: «Noi non rinunciamo alla nostra moschea», e ora l’hanno fatto. Ora l’imam ribadisce: «Lo abbiamo comprato, non avremmo il diritto di usarlo e quello di pregare?». E la destinazione d’uso? L’agibilità? «Chiedetele agli altri centri anche cattolici. Tutti quanti ce l’hanno?». La legge regionale sul governo del territorio ha inasprito i requisiti per aprire i luoghi di culto.

La Regione stessa ammette: «Quasi nessuno li rispetta».

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