Ma quali idealisti? Solo "peracottari" della realpolitik

Troppo deboli per portare avanti una battaglia di principio e maldestri nella diplomazia. I politici-sognatori falliscono

Ma quali idealisti? Solo "peracottari" della realpolitik

Il pasticcio sul caso Dalai La­ma è anche un­emblematico e in­volontario saggio sulla natura di questa sinistra che amministra Milano.E insieme a un’inedita fi­guraccia planetaria, ci regala due certezze sulla natura di que­sti nuovi inquilini di Palazzo Ma­rino. In primo luogo, il rifiuto finale dell’onorificenza (mascherato da rinvio) smentisce finalmente una fragile panzana propagan­distica su Giuliano Pisapia e suoi, ovvero la storiella, buona appunto per la campagna eletto­rale che a Palazzo Marino fosse planata chissà da quale cielo della politica una schiera di idealisti e sognatori. Niente del genere. La decisione è stata presa per pure, evidenti e conclamate esigenze di realismo politico legate all’Expo e a chissà quali altre ragioni di «business comunale».

Ma non è tutto: il clamoroso pasticcio della cittadinanza data e poi negata fornisce anche una seconda evidenza, se possibile ancor più scoraggiante: siamo in presenza della peggior categoria possibile di realisti politici, quella dei dilettanti.

Considerazioni non particolarmente severe, queste. Infatti «pasticcio», «figura da peracottari», «disonore» e così via sono tutte definizioni firmate da esponenti o amici di questa maggioranza, che ha attirato su di sé gli occhi del mondo intero con una gestione cialtronesca di un caso anche diplomatico delicato, come quello della cittadinanza onoraria da assegnare al capo spirituale dei buddisti, conosciuto in tutto il mondo anche come simbolo della battaglia per la difesa dei diritti del popolo tibetano, sottoposto al dominio della Repubblica popolare cinese. «Peracottari di provincia», in particolare, è la definizione usata da Dario Fo, (discusso) Nobel per la Letteratura che si rammarica per il trattamento riservato all’indiscusso Nobel per la Pace del 1989. E appunto la delusione è doppia. In campagna elettorale, nel «diario» di quella che è stata innegabilmente un’avventura fortunata, il candidato del centrosinistra - certo consigliato dai suoi strateghi - aveva puntato molto su una differenza qualitativa rispetto agli avversari: non proponeva solo politiche diverse, soluzioni differenti, ma una politica diversa per natura, animata da motivazioni superiori, che non disdegnava di usare la parola felicità. «Non è da visionari - scriveva il sindaco - immaginare che la buona politica debba avere tra i suoi obiettivi anche la felicità». Inutile aggiungere tutto il vaniloquio sul primato della politica sull’economia, sui diritti, sull’«altro mondo» possibile o imminente. Potevamo dunque aspettarci una grande battaglia di principio, a costo di perdere qualche danè. Sarebbe stato contestabile ma coerente. E invece che fine ha fatto tutto questo idealismo?

Archiviato, con una brutalità che farebbe arrossire il più cinico dei «cattivi» pragmatici. Ma non è tutto. Se almeno fossero stati abili, Milano avrebbe potuto farsene una ragione. Invece è sul doppio fallimento che si misura la pochezza di questa amministrazione comunale. Ha azzardato, ha superficialmente promesso quel che non era in grado di mantenere. Poi ha ingranato una rovinosa e repentina retromarcia, indotta dalle plateali pressioni subite.

Un dietrofront che ha moltiplicato il danno mediatico, insieme alle perplessità, o alle aperte proteste, degli avversari e soprattutto degli amici. Siamo in mano a politici poco coraggiosi per essere davvero idealisti, insomma, e maldestri nel terreno della realpolitik. Perdenti su tutta la linea.

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