Da stasera l'Elfo Puccini risuonerà di «Nessi» inaspettati. È in cartellone, fino al 13, il nuovo spettacolo di Alessandro Bergonzoni (regia in coppia con Riccardo Rodolfi). Immerso in una scenografia «prematura», il poliedrico artista bolognese ricerca i legami misteriosi che ci uniscono all'universo. Su di lui hanno detto di tutto, di norma con gran sciupo di epiteti circensi: funambolo, acrobata, giocoliere, equilibrista... Vero. Ma almeno un altro merito vogliamo riconoscerglielo: quello di essere riuscito, in tempi non facili, a restare al di qua del rischioso confine che separa i comici, quelli veri, dai maîtres à penser, quelli improvvisati. E aver continuato, spettacolo dopo spettacolo («Nessi» è il 14esimo) con la sua satira che prima di promettere rivoluzioni invita a scrutare dentro noi stessi.
Bergonzoni, intorno a noi vediamo guerre civili, il fronte antieuropeista che avanza, lacerazioni interne ai partiti... E lei ci parla di «Nessi»?
«Noi vediamo le rivoluzioni ma non le rivelazioni. Che ci sono sempre, in ciascuno. Per questo parlo di antepolitica anziché di antipolitica. Prima di tutto c'è da lavorare su noi stessi. I Nessi servono a costruire politici diversi, giudici diversi, medici diversi. A creare etica, politica, coscienza, conoscenza».
Che spettacolo dobbiamo aspettarci?
«Cerco di mettere in luce i fili che legano realtà anche lontane. Ogni gesto che facciamo ne ricorda altri, è questo il nesso. Chinandoci per allacciarci le scarpe abbiamo mai pensato di fare lo stesso gesto che nello stesso istante, in Siria, fa un uomo che si nasconde dietro un bidone per sfuggire al tiro di un cecchino?»
Siamo sempre più con-nessi, ma sempre più privi di voglia di scoprirci. Come si creano legami?
«Prima di fare sesso, facciamo nesso, e senza precauzioni! Prima di fare i talk show, cerchiamo di ascoltare dentro noi stessi! E scopriremmo la bellezza dello spirito. Non solo in senso religioso, ma come paesaggio interiore».
Dove vuole arrivare?
«A smetterla di ragionare per categorie predefinite. Parlare di letteratura solo quando muore un poeta. Commuoverci per un minuto per ricominciare a guardare calciatori e cuochi come eroi. A farla finita con la parodia in cui il politico di turno se la ride in prima fila. A cambiare spartiti, non partiti».
Il suo «Urge», che è stato in tournée per quasi 4 anni, ha avuto successo. Di quali nessi sente ora l'urgenza.
«Di tutti quelli che ci mettono in contatto con altre realtà. E ci fanno capire che l'arte è dentro di noi, in ogni istante. Come la politica. Noi votiamo in ogni momento, e il vero Parlamento inizia all'asilo».
La rete aiuta, ostacola o non c'entra?
«La rete va bene, a patto che non diventi ossessione, e non ci faccia perdere i sensori tra noi. A inter-net preferisco inter-nos».
La sua è una satira colta, dagli infiniti antecedenti letterari. Come fa a «farla passare» al pubblico?
«Anche se riempio le sale non ho un mio pubblico. Si va dagli ottantenni, che mi vedevano da Costanzo, ai ragazzini che mi scoprono su Youtube. E raramente vado in tv, dove una sera fai l'audience di 30 anni di teatro ma la volgarità di certe conduzioni ti divora. Mi sono sempre chiesto: perché abbiamo paura dell'altezza? Vogliamo cibi esclusivi, vacanze da favola, oggetti prestigiosi e ci accontentiamo di un pensiero basso. Non capisco».
Attribuisce ai nessi un valore rivelatorio, epifanico. Ma crede davvero che le parole, di per sé, possano salvarci?
«La parola è potentissima, è una forma di sciamanesimo. Dicono che gioco con le parole. In realtà sono le parole che giocano con noi, sono mattoni per costruire un pensiero, metterlo in moto e farlo detonare. Altrimenti restano solo calembour, come spesso accade. Io ho paura di certe parole stuprate: amore, fratello, sfida. Parole con cui ormai si fa merenda».
Come tanti comici della sua generazione, ha cominciato a Milano. Qualche ricordo?
«Non amo gli aneddoti, ma ricordo bene quando iniziai al Derby. Erano i tempi di Aldo e Giovanni (non ancora Giacomo), del primo Paolo Rossi. Se ne erano appena andati Jannacci, Abatantuono.
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