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"Rap ribelle a San Siro? Contrasti esplosivi, ma nel mix c'è Milano"

Il cantautore Eugenio Finardi: "Giro e amo questo quartiere. Vedo tensione, non paura. Ci vuole bellezza"

"Rap ribelle a San Siro? Contrasti esplosivi, ma nel mix c'è Milano"

Eugenio Finardi, musicista, cantautore, milanese residente a San Siro, si parla di sparatorie, gang e rapper arrestati nel suo quartiere.

«Diciamo subito che San Siro è un quartiere di grandi contrasti, al di qua e al di là dello stadio ci sono mondi opposti, in via Degli Ottoboni si trovano alcune delle case più belle di Milano, e dall'altra parte un altro universo. Verso Segesta, o Selinunte, sembra davvero di stare in Marocco, o in Egitto».

Lei la conosce bene la zona.

«Si parla di luoghi che sono a cento metri da casa mia. Dove hanno sparato vado a comprare il pane. Lì c'è il bar dove vado a bere il caffè per usare le cinque parole di arabo che conosco».

Che idea si è fatto?

«Vedo, e immagino, quelle case Aler. Io nel lockdown impazzivo col terrazzo e il giardino e pensavo: Come fanno in 20 metri in 7-8?. C'è disagio, ma anche vitalità, e vengono messe insieme in musica emulando l'America. Ricordo il disco registrato a New York. Tenevano nascosto il midi: Altrimenti vengono i rapper a rubarcelo. Quello dei rapper è un modello, un look, come lo era il nostro, diverso, quando io portavo il primo orecchino di Milano e Alberto Camerini i pantaloni a zampa, e un tram si fermò in corso Sempione, un tram intero a irriderci».

Altri tempi, altri stili.

«Noi eravamo privilegiati, questi ragazzi usano quel linguaggio ma non vuol dire che sano tutti uguali o cattivi. A volte li incontro, nell'area cani, hanno dei mastini e io una Golden che va d'accordo con tutti. Ci parlo, appaiono normalissimi. Credo che il disagio sia il motivo degli eccessi a cui sono arrivati».

Disagi e conflitti.

«Io vado molto in bicicletta, la visione è molto diversa da quella che si ha in auto. Intravedo stanze coi letti a castelli a tre livelli. Lì si crea un acceleratore di claustrofobia e insofferenza. E ti chiedi anche come facciano i milanesi a conviverci».

Lei cantava la «Musica ribelle»...

«Questa è veramente ribelle, la mia enunciava una ribellione di consapevolezza politica, esaltava la partecipazione non certo la violenza. Altri, con altri modelli e in queste pentole a pressione, producono altro. Ma in questi contrasti c'è anche un po' della poesia di Milano»

Nelle ville come la vivono?

«Questi ragazzi hanno un universo parallelo rispetto a quello dei benestanti. Ma dagli italiani che abitano nella stessa strada possono essere visti come una minaccia. Avverti un tacito accordo, ma ti rendi conto che c'è tensione».

Questi rapper agitano armi. Solo pose?

«Evidentemente no. Prima avrei detto: sono armi di scena, anche perché non è facile trovare armi del genere. È in quel cliché».

Avverte più insicurezza?

«Io non la sento, onestamente. C'è cautela, ma non c'è l'idea di stare in un quartiere pericoloso come puoi avere ai Quartieri spagnoli. Io conosco questi luoghi dal 2000, giro, faccio foto allo stadio, senza essere un tifoso».

Lo abbatterebbe?

«Dipende da cosa fanno, la zona è preziosa, il verde entra fino a Lotto. C'è molto spazio. Io abito in un ex abuso, sequestrato e poi venduto».

Dove è cresciuto?

«Concepito via Massena, cresciuto in zona Fiera, si stava bene. Ora ho 70 anni, nessuno rompe scatole a un 70enne in bici. Una volta sono caduto e mi hanno aiutato due di questi ragazzi, gentili. Ci sono contrasti ma non ho paura. Poi sono metà extracomunitario».

Cosa intende?

«Mia mamma americana. So cosa vuole dire crescere da mezzo straniero in una Milano omogenea. Segna. «Mi ha colpito molto una canzone di Ghali: Torna a casa dice. Sono già qua. Riconosco me da giovane. La diversità culturale dà una sensazione di inferiorità mista al senso superiorità».

Questi rapper non hanno identità politica.

«Ma la Milano in cui siamo cresciuti noi era molto più violenta, per motivi ideologici. Omicidi, terrorismo. Io non potevo attraversare San Babila».

Come qualità musicale, che pensa di questo rap?

«È troppo veloce, non mi entusiasma, ascolto musica trap, anche i contenuti provocatori mi divertono. Jannacci diceva che l'importante è esagerare. Certo, questi hanno davvero esagerato. Troppo».

Che fare allora?

«In questa nuova San Siro che sta per nascere si deve ridare bellezza, dignità e vivibilità alle case. Trenno per esempio è un piccolo paradiso, a invece Bonola senti tensioni. Quando le differenze sono troppe ,è così. I vasi comunicanti creano gorghi, però è bello che siano comunicanti. In Francia le banlieue sono fuori, Milano resta un minestrone. Non un passato di verdure: un minestrone a tocchetti piccoli. Sei carota ma sai che c'è anche il sedano. Non bisogna smettere di andare in quei luoghi. Lì incontri gente vera».

Non isolarsi?

«Creare spazi. Molti ci sono per bambini. Ne servono altri. A New York ci sono campetti di basket, servono spazi in cui incontrarsi. Quando ho chiesto il primo caffè parlando arabo mi hanno visto come un marziano».

Un extraterrestre, per citare una sua canzone.

«Sì, alla quinta volta però non dico che mi hanno tirato dentro ma mi hanno accettato. Non bisogna smettere di integrarci. Loro a noi e noi a loro».

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