Le parole più severe, nelle motivazioni delle 52 condanne emesse nel gennaio scorso per ex consiglieri ed ex assessori della Regione Lombardia, i giudici le riservano al leghista Stefano Galli: ma sono, a ben vedere, dedicate complessivamente al clima che regnava al Pirellone. A Galli viene contestata la «volontà marcatamente predatoria dell’imputato, il quale approfittando della materiale disponibilità del denaro in ragione dell’ufficio ricoperto ha deliberatamente posto carico della Regione una spesa privata, dimostrando un senso di impunità altamente sintomatico di chi crede di poter vivere al di sopra e al di fuori delle regole, contando sulla connivenza degli uffici regionali assolutamente incapaci di porre argine al malcostume e all’illegalità diffusa e supini rispetto all’arbitrio del potere politico» .Eh sì. Perché anche se a Galli viene contestato l'episodio più incredibile di tutti, il pranzo di nozze della figlia rimborsato come spese di rappresentanza, alla sfilza lunga e trasversale dei condannati il tribunale rimprovera di avere approfittato di un «malcostume diffuso». Ovvero, l'utilizzo dei fondi delle «spese di rappresentanza» per le necessità più disparate. E in alcuni casi platealmente private.
Molti imputati si sono giustificati dicendo di non conoscere, o di avere male interpretato, le norme regionali sui rimborsi spese. Ma l'ignoranza della legge, che non è mai una scusante, per loro vale ancora meno: come scrive il tribunale presieduto da Gaetano La Rocca, «non si versa in una situazione di ignoranza inevitabile, in quanto gli imputati erano i soggetti istituzionalmente deputati all'esercizio della funzione legislativa regionale e quindi erano sicuramente attrezzati rispetto alla possibilità di cadere in errore nell'interpretazione della legge».
La voce più calda, nello scandalo dei rimborsi, erano sicuramente i pranzi cosiddetti «di lavoro»: spesso consumati da «Berti», il ristorante vicino alla Regione ormai ribattezzato «la mensa dei poveri», ma anche in trattorie, bistrot, autogrill, ristoranti di lusso, rifugi di montagna e quant'altro. Invariabilmente, gli imputati hanno sostenuto che si trattava di incontri strettamente connessi alla funzione istituzionale. I giudici all'inizio della sentenza ribattono enunciando un principio cui poi si attengono per tutte le 216 pagine: «Un politico che debba incontrare colleghi, cittadini e portatori di interessi collettivi ben può e deve espletare tali costruttivi dialoghi esclusivamente nelle competenti sedi istituzionali, ma non certo in un ristorante con costi per sé e ospiti a carico dell'amministrazione e dunque della collettività». Parlatevi in ufficio e poi mangiate a spese vostre: questo è il concetto.
Ai singoli imputati, di volta in volta i giudici riservano parole più o meno severe a seconda della disinvoltura dimostrata. Trattamento inevitabilmente pesante per Renzo Bossi, leghista, figlio del Senatùr, che oltre a «sushi, panini, caramelle, salatini, redbull, fonzies, spazzolini, sigarette, salviette rinfrescanti» aveva messo in nota spese «materiale informatico di ultima generazione per oltre 4.500 euro», nonostante avesse a disposizione l'attrezzatura fornitagli dalla Regione. «La palese eccedenza tradisce finalità egoistiche personali», scrivono i giudici.
La sentenza ricorda come alcuni imputati abbiano sostenuto la tesi del «si fa così da sempre»: come Jari Colla, dell'allora Lega Nord, secondo cui «da quando esiste la Regione Lombardia la spese per i pranzi era stata considerata estensione dell'attività politica istituzionale». Ma per il tribunale è una giustificazione che non giustifica nessuno. Come non è una scusante il fatto che molti consiglieri si siano attenuti, secondo loro, ai vademecum che le segreterie dei gruppi consiliari approntavano per la gestione dei rimborsi spese.
Gli incontri conviviali, afferma la sentenza, erano «spese volte a dare lustro all'immagine politica del consigliere». E quanto a un'altra voce rilevante indicata nei rimborsi, ovvero le spese di viaggio, la sentenza rimarca come si trattasse di una duplicazione del rimborso, visto che ogni mese ciascun consigliere regionale percepisce 3.525 euro in più nella busta paga proprio a questo fine. I giudici sottolineano la performance di un consigliere leghista che, quando il pm gli fece presente questo dettaglio, gli rispose «io il cedolino paga non l'ho mai guardato».
Ci sono voci di spesa che si salvano: quelle per attrezzatura tecnologica (se non si esagera), i necrologi, i fiori. E i libri, a condizione che abbiano almeno un po' a che fare con l'incarico ricoperto. Ma Colla viene condannato per avere comprato otto copie del libro El princip piscinin, che «non ha alcuna utilità o pertinenza con il mandato di consigliere».
E la stessa sorte tocca a Nicole Minetti che mise in nota spese un libro intitolato Mignottocrazia, in cui si parla dello scandalo Ruby, «di interesse esclusivamente personale dell'imputata, soggetto coinvolto in tale inchiesta».
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