La ricetta di Bradburne: così farò rinascere Brera

Il neodirettore chiede 100 giorni per il suo piano: «Palazzo Citterio e le mostre non sono la priorità»

«Abbiamo trentotto stanze di capolavori: cominciamo da lì. Dobbiamo rimettere il palazzo di Brera al centro della città: ci sono ancora troppi milanesi che lo conoscono poco o nulla e questo, a me che sono appena arrivato qui, fa male». James Bradburne, sessant'anni, anglo-canadese, sei lingue parlate (tra cui l'italiano), alle spalle incarichi museali in mezzo mondo, da Francoforte alla Cina, e già direttore generale di Palazzo Strozzi a Firenze, è da tre settimane ufficialmente il direttore della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense. «Troppo poche per fare annunci», dice ma poi, interrogato sul progetto della Grande Brera e sull'allargamento degli spazi a Palazzo Citterio si sbottona: «Si farà, direi tra tre o quattro anni: m'impegno a non andare oltre quella data perché Palazzo Citterio è il futuro di Brera. Ora però dobbiamo pensare al presente e stare attenti: l'espansione è una droga. Dobbiamo pensare alla valorizzazione della collezione permanente di Brera. Abbiamo trentotto stanze su cui poter lavorare: cominciamo da qui». Bradburne dice che la sera legge i testi di Franco Russoli, già sovrintendente a Brera, e che lì c'è già tutto per chi voglia occuparsi di musei, oggi in Italia: «Sono scritti negli anni Sessanta e Settanta, ma ancora attuali: fino ad oggi si è pensato alla tutela, che è importantissima e non deve mancare, ma ora concentriamoci sulla valorizzazione». Bradburne non vuol sentir parlare di cambiamenti drastici, eppure tra le righe (dell'immancabile gilet) e dietro gli occhiali tondi e il ciuffo sbarazzino, si capisce che il neodirettore ha già vari progetti in mente: «Datemi cento giorni, come si fa con i politici, e darò un'agenda precisa sul da farsi. Ci sono tante cose da rivedere e persone da sfruttare al meglio. Vorrei mettere il visitatore al cento e trasformare la visita di Brera in un'esperienza: abbiamo tre anni per valorizzare per bene la nostra collezione. Mostre temporanee? Non sono in programma: anch'esse sono come una droga. E' stato dimostrato che sottraggono pubblico ai visitatori della sezione permanente dei musei», spiega. Vero è che la Pinacoteca manca di spazio: «Lo spazio serve, ma facciamo capire a tutti perché ci serve», commenta Bradburne, poco avvezzo al burocratese. Accenna a una ventata di aria fresca nel settore della didattica – lui stesso ha scritto vari volumi e guide museali per bambini – e degli allestimenti: «Se tutto l'ingresso a Brera diventasse così, sarebbe un ottimo inizio»¸ ci dice indicando l'atrio dei gesuiti fresco fresco di restauro (laddove è mancato lo Stato ci ha pensato un'impresa privata: il merito è tutto della Rigoni di Asiago che si è accollata gli oneri dei lavori di restauro). Siamo nel nucleo più antico del Palazzo, a destra dell'ingresso principale: sono stati rinfrescati gli intonaci e i serramenti, è stata messa una nuova illuminazione e soprattutto sono stati ripuliti i monumenti dalla polvere e dal guano dei piccioni. E' ora tirato a lucido il portale barocco della chiesa del Santo Sepolcro e splende, luminoso nel suo marmo bianco, il bassorilievo marmoreo di Gaetano Monti con l'«Incoronazione di Napoleone» che avrebbe dovuto decorare l'Arco della Pace. Ripulito anche il monumento al pittore Giovanni Perego eseguito da Pompeo Marchesi e tornati alla loro originale e rigorosa bellezza i monumenti a Ruggero Boscovich, gesuita e scienziato che fondò l'Osservatorio Astronomico di Brera, e a Giuseppe Sommaruga.

Un tempo degradato, privo di luci adatte, invaso dai piccioni, l'atrio appartiene al nucleo più antico del Palazzo di Brera: era l'antico ingresso del collegio e del monastero dei Gesuiti voluto da San Carlo Borromeo (e che poi Maria Teresa d'Austria trasformò nel 1773 in polo museale): i gesuiti vi tenevano delle rappresentazioni teatrali, suggestione che non è sfuggita al neodirettore Bradburne.

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