Cristina Bassi
«Non vi serve niente, prendete le valigie e venite qua. È obbligatorio. Morirete da martiri. Noi siamo qui, stiamo ammazzando i miscredenti». Maria Giulia Sergio, alias Fatima, parla via Skype dalla Siria ai suoi genitori e alla sorella Marianna. Lei è partita da Inzago, vicino a Milano, per unirsi alle file dell'Isis e insiste perché la famiglia faccia lo stesso. Al processo alla prima foreign fighter italiana (latitante), e ad altre cinque persone tra cui suo padre Sergio Sergio, scorre il film della vita quotidiana nel Califfato descritta da chi ci vive. E dell'organizzazione creata per reclutare combattenti della jihad da tutto il mondo. Almeno per quanto riguarda il periodo entrato nell'inchiesta, tra la fine del 2014 e la prima metà del 2015. Nelle telefonate Fatima racconta di decapitazioni, lapidazioni, mani tagliate: «È la sharia - spiega - una legge perfetta e giusta».
Nella requisitoria il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli (che terminerà il 16 novembre) sottolinea il valore di un processo e di un'indagine preziosi per la lotta al terrorismo internazionale. «È emerso - dice in aula - uno spaccato di vita che ci interroga tutti». Agli atti ci sono molte intercettazioni telefoniche e telematiche. «Dei sei imputati (altri, tra cui Marianna Sergio, sono già stati condannati con il rito abbreviato, ndr) solo uno è qui - continua Romanelli -: Sergio Sergio, che si trova ai domiciliari. Quattro sono partiti per la Siria con forti motivazioni e fanno parte della maggiore organizzazione terroristica del mondo. Oltre a Fatima, il marito albanese Aldo Kobuzi, la madre e la sorella di lui». Diversa è la posizione di Haik Bushra, accusata di essere una reclutatrice per conto dello Stato islamico, «donna che si rivolge alle donne», e che si troverebbe in Arabia Saudita. La moglie di Sergio, anche lei arrestata nel luglio 2015, è morta alcuni mesi fa.
Ieri davanti alla Corte d'assise il padre di Fatima ha risposto alle domande del suo difensore, l'avvocato Erika Galati. È accusato di aver organizzato il viaggio della famiglia per raggiungere la figlia minore, con finalità di terrorismo. La famiglia si era convertita in blocco all'Islam. «Non volevo andare in Siria per fare la guerra - si è difeso, non senza difficoltà nell'esprimersi e nel comprendere le domande -, volevo solo stare con mia figlia. Anche Marianna e mia moglie insistevano, ma io non ero contento di partire». Romanelli ha invece sostenuto che l'uomo sapesse cosa stava facendo. «Aveva deciso di andare - ha sottolineato l'aggiunto -, ha organizzato il viaggio e contribuito con il denaro che aveva ricavato licenziandosi dalla fabbrica. Secondo le regole che Fatima professava infatti, la decisione finale toccava all'uomo di casa». Seguendo le tracce di Fatima gli inquirenti hanno anche scovato il suo «facilitatore» e ne hanno spiato il telefono, un'utenza turca che termina con i numeri «-466». Personaggio di spicco dell'Isis, si chiama Ahmed Alarit e si qualifica come «emiro». Coordina l'arrivo di foreign fighter da tutto il mondo. Smista italiani, francesi, marocchini, svedesi, spagnoli, libici, egiziani, turchi. Maria Giulia viene accolta grazie a una sorta di «meccanismo a cascata» di tipo familiare. I parenti del marito sono già nel Califfato e godono della sua «struttura di servizi», da lì gestiscono l'arrivo della nuova coppia e lo stesso farà la ragazza con la propria famiglia d'origine. «Dovete venire - dice al telefono -, vi organizziamo il viaggio da qui. Ci sono collegamenti con l'Italia. Ma non parlatene con nessuno».
Fatima loda gli attentatori di Charlie Hebdo, poi parla della routine familiare e del lavoro del coniuge, «poliziotto della sharia»: «Come soldato va con altri fratelli a lapidare un adultero». Dall'altro capo Marianna ride, la madre Assunta approva: «Bene». Conclude Romanelli: «Fatima non dice nulla a caso, parla chiaro e non è certo pazza. Sarebbe troppo facile, come dire che chi la ascolta non capisce».
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