Si sa: l'odio può essere un sentimento forte e avvolgente a cui abbandonarsi e, soprattutto in certi frangenti, diventa facile e appagante. Gemma Capra, la vedova del commissario Luigi Calabresi, ha da sempre un grande sorriso, specchio del suo animo. E di una interiorità che non la poteva spingere a educare i suoi tre figli all'odio. «Il nostro non odiare è stato il modo migliore per riabilitarlo, perché gli italiani non sapevano chi fosse, ma noi sì» ha spiegato ieri mattina questa donna granitica e dolcissima all'interno del cortile della questura dove si celebravano i 47 anni dall'omicidio del marito, ucciso il 17 maggio del 1972 sotto casa in via Francesco Cherubini. Insieme a lei il figlio Mario, giornalista (nella foto a destra del questore, ndr) e il direttore del «Quotidiano Nazionale» Michele Brambilla hanno partecipato anche alla commemorazione della cosiddetta «strage della questura» avvenuta dopo un anno esatto dall'omicidio Calabresi.
Profonde le parole del questore Sergio Bracco che, davanti alle autorità e anche al direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, ha parlato di Calabresi come di «una delle più fulgide ed eroiche figure della polizia di stato»
«La sua morte giunse al culmine di una campagna denigratoria. Sono stati anni difficilissimi, ma lui ha continuato a lavorare in grande solitudine - ha sottolineato il questore -. Anche Milano allora pianse molti morti. Non tutti i responsabili hanno pagato il conto con la giustizia.
Alcuni a oggi non hanno fatto un giorno di carcere».Parole di ammirazione anche da parte di Brambilla che ha ricordato come Calabresi fosse rispettato e ritenuto «un poliziotto corretto» anche da molti manifestanti dei suoi tempi.
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