Scala, dopo 20 anni torna «Il Turco in Italia» Rossini immaginario

Il dramma buffo al Piermarini da sabato Andò: «Napoli napoleonica teatralizzata»

Piera Anna Franini

L'opera che da sabato 22 fino al 19 marzo va in scena alla Scala «Il Turco in Italia», tecnicamente è un dramma buffo. Nella realtà, però, si respira tanta amarezza in questo titolo di Gioachino Rossini su libretto di Felice Romani, opera che dopo vent'anni d'assenza, torna a Milano con la direzione musicale di Diego Fasolis e la regia di Roberto Andò, Alex Esposito interviene nel ruolo del titolo (è Selim, dunque Il Turco), Rosa Feola è Fiorilla, Giulio Mastrototaro è Geronio e Mattia Olivieri il poeta Prosdocimo.

La tristezza non è certo suggerita dal viaggio di migranti Turchi che approdano sulle coste italiane, il parallelismo con l'oggi è forzato ma si deve al direttore Fasolis. La tristezza nasce da un matrimonio, quello tra Fiorilla e Geronio, in piena crisi. Geronio, «scimunito» si legge nel libretto, si rivolge a cartomanti per capire se mai riuscirà a domare la capricciosa Fiorilla. Che a sua volta ammette: «Non si dà follia maggiore dell'amare un solo oggetto». Per questo, non appena si presenta l'occasione, volge lo sguardo a un altro «oggetto»: incrocia il bel turco Selim e progetta una fuga. Alla fine, Selim se ne andrà ma in compagnia di un'altra donna, Zaida, mentre Fiorilla tornerà con Geronio e via con il solito trantran.

Vicende saporite per il poeta Prosdocimo, altro personaggio dell'opera, che prenderà spunto da fatti e retroscena per comporre le sue trame.

Il Turco in Italia è un'opera sfuggente. Dato il taglio metateatrale è capitato che sia stata riletta in chiave pirandelliana, mentre il regista (di teatro, cinema, opera) Andò preferisce associarla a Calvino, e in particolare al romanzo «Se una notte d'inverno». La similitudine viene dalla giocosità seria, «da quella sua leggerezza profonda per cui un'ombra di malinconia finisce su personaggi da commedia. Si coglie il senso dell'impossibilità, si racconta un fallimento. Il lieto fine è appiccicato e sembra dire che i personaggi rimangono irrisolti. Il fatto che i personaggi escano da botole o compaiano su carrelli spiega che la dimensione riguarda più l'ipotesi che la realtà».

Siamo nella Napoli napoleonica. I riferimenti storici derivano anzitutto dai costumi (di Nanà Cecchi), che «teatralizzano l'epoca. Per il resto, l'ambientazione - continua il regista - è fantastica. Si sente il mare, ma è teatrale. Si sente il colore napoletano e si respira aria napoletana ma è anche ipotetica. Si sente l'artificio. La scena non è concreta, ma sospesa, come se pure il luogo fosse un'ipotesi».

Partenopea al 100% è Rosa Feola. «Sono campana e vedo in Fiorilla una vena tragicomica. È brava nel trasformare la sua tragedia, vuole andare oltre la noia matrimoniale dandosi nuove regole. Vuole essere se stessa senza preoccuparsi delle conseguenze sebbene alla fine poi tornerà col marito. È donna molto colorata, dai gesti eleganti ma anche molto nervosi».

Mastrototaro, nei panni del marito gabbato Geronio, è un buffo-serio. «Soffre ma alla fine ci ricasca - spiega l'artista -.

È vittima del proprio carnefice, la moglie, sposata in seconde nozze dopo la vedovanza. Ha solo un momento di ribellione, ed è nel duetto, cerca infatti di dare uno schiaffo a Fuiorilla. In realtà non lo fa, anzi si pente di averlo pensato. Ma quel gesto lo condizionerà per tutto il proseguo dell'opera».

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