La Scala, l'Ema, i patti violati Gli schiaffi «romani» a Milano

I forfait a Sant'Ambrogio e l'Agenzia del farmaco persa sono solo gli ultimi atti di una politica dell'indifferenza

Alberto Giannoni

La Scala è solo l'ultimo atto. Il forfait dei politici alla Prima non è che l'ennesimo schiaffo rifilato a Milano, dopo la sconfitta di Ema, dopo il fantomatico Patto per Milano, dopo i tormenti della Città metropolitana. Dopo, dopo, dopo. E così la metropoli che si è caricata il Paese sulla schiena, salvando il salvabile della sua fragile economia, si trova nella paradossale situazione di subirne la distratta apparente ingratitudine.

E questo - come detto - visto da Milano non è che un ritornello. Per il secondo anno consecutivo le più alte cariche istituzionali hanno disertato il più prestigioso evento culturale del Paese, lasciando Milano sola col suo orgoglio di «capitale». E stavolta non c'era neanche la «scusa» della crisi di governo, che nel 2016 teneva impegnati il dimissionario Matteo Renzi e il Quirinale (il presidente Sergio Mattarella ha poi recuperato a marzo, per il 150 anniversario della nascita di Arturo Toscanini). Due giorni fa, nel giorno dell'«Andrea Chenier», dal Piermarini si sono tenuti alla larga anche i presidenti delle Camere Laura Boldrini e Pietro Grasso, che pure era stato annunciato. A rappresentare lo Stato il sottosegretario Maria Elena Boschi, costretta a un ingresso secondario forse per paura delle contestazioni - peraltro mai così deboli - e l'incolore ministro della Cultura Dario Franceschini. Così, sindaco e governatore hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco, nella parte di chi può fare a meno dei Palazzi . Ma la latitanza governativa, purtroppo, Milano l'ha pagata cara, 2 miliardi circa, quando i ministri degli Affari europei le hanno preferito Amsterdam come sede dell'Agenzia del Farmaco, e mentre sul filo dei voti si giocava una partita diplomatica cruciale per l'indotto economico e non solo, l'Italia a Bruxelles era rappresentata (solo) dal sottosegretario Sandro Gozi, già uomo di Romano Prodi a Bruxelles, facendosi alla fine beffare dai Paesi Bassi, fondatori sì dell'Europa ma contraenti e contribuenti minori. E ancora si ripensa con rimpianto all'offensiva diplomatica scatenata per ottenere Expo da un sindaco come Letizia Moratti, vero artefice di un evento sulla cui gloria hanno «campato» i successori, Giuliano Pisapia e Beppe Sala, che si trovano per le mani una città moderna e dinamica concepita in gran parte nei lustri precedenti.

Intanto la Lombardia vanta un Pil che è pari a un quinto del totale nazionale e potrebbe competere per dimensioni con quello degli Stati. È questa d'altra parte la tesi della «Lombardia speciale», che ha portato il Pirellone, specie le sue avanguardie federaliste, a spingere sull'acceleratore dell'autonomia in occasione del referendum del 22 ottobre, che alla fine ha portato quasi 4 lombardi su 10 alle urne, nonostante il boicottaggio della sinistra. Intanto quella stessa sinistra ha «tosato» gli enti locali per far quadrare in qualche modo i conti - che comunque non tornano. E mentre il governi continuano a rinviare il pareggio di bilancio centrale, le Regioni in pareggio ci sono già dal 2015. Anzi devono fare avanzi per miliardi e la parte del «leone», per così dire, la fanno ancora Milano e i lombardi. E intanto il governo non dà alla Regione neanche la possibilità di tagliare i ticket sulla sanità.

Eppure quando si tratta di risolvere il pasticcio Città metropolitana, si deve arrivare a un passo dal baratro per ottenere risposte da cui dipende la sorte di scuole, strade e servizi fondamentali. E Milano va avanti con discrezione, disciplina e dovere. Ma poi presenta il conto.

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