La stupidità non ha requie, non c'è modo di tenerle dietro. Einstein dubitava dell'infinità dell'Universo, ma non di quella dell'umana insipienza, e aveva ragione. Per comprendere questa abissale verità è sufficiente salire sugli autobus della benemerita linea «94» e goderci i nuovi annunci di fermata, che segnano un passo avanti nella difficile arte della comunicazione vocale su bus. Ora possiamo dirlo: dopo molti sforzi siamo finalmente giunti alla scemenza post-postmoderna.
Se fino a qualche tempo fa le voci anodine di qualche emaciata invisibile signorina infilavano nella loro fragile toponomastica errori capaci di destare una qualche forma di tenerezza («Dateo» trasformata in «Tadeo» - e chi era costui?, forse l'ultimo flirt?), ora è la volta di emancipati signori dalla voce rassicurante i quali, in nome della modernità più vertiginosa, hanno pensato di eliminare i santi dalla terra - o perlomeno da quella milanese - riducendone i nomi a più laica e cameretesca norma: non Sant'Ambrogio bensì Ambrogio, non Santa Sofia, bensì Sofia, e così via, e così sia.
Esiste, naturalmente, una tradizione accademica molto antica in proposito. Il filosofo può ben dire «Agostino», riferendosi al pensiero del genio di Tagaste, anziché «Sant'Agostino». Così come può ben dire «Tommaso» a proposito di San Tommaso D'Aquino, ma solo se ne tratta la dottrina, dalle Cinque Vie all'ens ut actus. Senza, con questo, dimenticare la sua strameritata aureola.
Ma un conto è la confidenza di un collega filosofo, un conto quella di un'azienda tramviaria, in questo caso assai poco milanese. Sì, perché un milanese, sia pure il più incallito dei mangiapreti, dirà sempre «vado in S. Ambrogio», o in «santambreus» tutto attaccato ma col santo bene in vista, né mai si sognerà di dire «vado in Ambrogio». Né prenderà mai il metrò a Babila, né una birra in Lorenzo. E non accetterà che la toponomastica urbana si popoli gratis di carneadi di nome Callisto, Calimero, Satiro, Nazaro, Celso e Gottardo. E se dovrà andare in galera, sarà sempre S. Vittore, o «sanvitùr», mai «in Vittore».
Nessuno, si sa, è profeta in patria. Gli ideatori della spettacolare novità, incompresi in questo infausto presente, o comunque incompresi (e profondamente) dal sottoscritto, potranno consolarsi al pensiero che il futuro riserverà loro, poco a poco, la considerazione che meritano. Un giorno tutti diremo «sono passato davanti a Carlo», «sono passato da Via Marta», ed elogeremo l'abside, ossia il cà, di Maria Delle Grazie, o Mariagrazia: magari non per convinzione profonda ma solo per abitudine. Perché, come diceva sempre la moglie dell'Orco vedendolo mangiare l'arrosto, ci si abitua a tutto.
E l'Atm? L'azienda interpellata per capire le ragioni di questa particolare dizione si è rifugiata «nell'errore tecnico, un problema di acustica solo su una delle nostre linee». Quindi nessuna intenzione volontaria, nessuna interpretazione malevola. Siamo certi allora che l'«inconveniente acustico» così particolare e così selettivo, sarà riparato al più presto.