
Chilometri di carte ingiallite dai secoli. Storie di miseria, di discriminazione e di speranza, restaurate una per una dalle monache di Viboldone. Un pezzo di memoria della città, la Milano povera e poverissima dove ancora nel 1861 metà dei ragazzi veniva scartata alla visita di leva per rachitismo e statura insufficiente. Tutto questo sta in un archivio sterminato, la cui sopravvivenza è messa a rischio dal marasma burocratico creato dalla brusca abolizione delle Province. Ma la Città metropolitana, l'ente dai contorni un po' vaghi che ha ereditato quanto rimasto sparso delle vecchie competenze provinciali, ha fatto sapere: nulla andrà perduto. Serviranno risorse e buona volontà, ma la storia del Brefotrofio di viale Piceno resterà viva e accessibile. Alle sue porte potranno continuare a bussare, cercando brandelli delle proprie origini, i discendenti delle migliaia di piccoli milanesi abbandonati: esposti, si diceva allora con termine un po' crudo; ma anche chi vorrà raccontare le tante vicende umane e sociali che i novecento registri e le settemila buste dell'archivio raccontano. Sono storie di bambini che da qua spiccarono voli importanti: come Anna Adelmi, la maestrina socialista che a cavallo della Grande Guerra diventò la prima giornalista politica italiana. Bisogna fare caso al suo nome: le due iniziali uguali, A.A., che dopo l'abbandono del cognome unico «Colombo» diventarono il marchio dei bambini consegnati al Brefotrofio. Parallelamente a quella dei bambini, i registri raccontano un'altra grande storia: il mondo delle balie, le ragazze che il Brefotrofio arruolava per allattare i piccoli ospiti, sia nel breve periodo che trascorrevano in viale Piceno, sia nelle famiglie cui l'ente li affidava. In tutte le province lombarde il lavoro di balia fu per tutto l'Ottocento e parte del Novecento una risorsa economica importante, al punto che il governo austriaco, per risollevare l'economia depressa della Valtellina, ordinò che almeno cinquecento bambini ogni anno vi venissero destinati dal Brefotrofio. Ma l'accoglienza e il trattamento che vi ricevevano era tale che la mortalità infantile - già alta - raggiunse picchi impressionanti: mentre rinomate, e contese tra i brefotrofi di Milano e di Como, erano le balie della provincia di Varese, delle piccole cascine della «campagna asciutta» dove (a differenza che nelle campagne irrigue della Lombardia meridionale, e delle sue enormi cascine popolate da braccianti senza prospettive) i bambini trovavano un ambiente relativamente salubre. Divenivano membri a pieno titolo della famiglia, e spesso insieme alla famiglia partivano verso l'avventura dell'emigrazione oltre Oceano: e questo fa sì che ancora oggi dalle Americhe arrivino in viale Piceno richieste di discendenti - reali o presunti - di piccoli «esposti», alla ricerca delle prove della origine italiane che consentirebbe loro di ottenere la cittadinanza.Sono storie numericamente assai maggiori di quelle, ben più raccontate e celebrate, dei Martinitt e delle Stelline. Mentre i due orfanotrofi non accoglievano che alcune decine di bambini all'anno, al Brefotrofio approdavano ogni anno fino a millecinquecento bambini. Prima nella vecchia sede voluta da Maria Teresa dove oggi, all'angolo tra via Francesco Sforza e via San Barnaba, si trova il pronto soccorso del Policlinico; poi nella nuova, grande sede realizzata nel 1912 sui prati e soprattutto sulle marcite - e infatti la zona veniva chiamata Acqua Bella - dove tutt'ora si trova, a ridosso di piazzale Dateo (scelta toponomastica non casuale: l'arciprete Dateo era stato l'istitutore, nel 787, del primo Brefotrofio), collegata da un passaggio sotterraneo alla clinica per la maternità di via Macedonio Melloni: da cui i piccoli venivano trasportati direttamente dopo il parto, quando la madre comunicava la propria impossibilità a tenerli con sè. Non era un diritto senza vincoli: a poter affidare i bambini al Brefotrofio erano solo donne singole e famiglie cui il parroco avesse stilato la «fede di povertà». E il legame tra madre e bambino non si spezzava mai del tutto: all'atto della consegna, al certificato d'accoglienza veniva allegata una sorta di contromarca, un segno distintivo che sarebbe poi stato utilizzato per recuperare il bambino se e quando la famiglia d'origine avesse avuto i mezzi per farlo. Nell'archivio che oggi ci si batte per salvare, questi piccoli simboli sono ancora visibili e custoditi. Poesie tagliate a metà, cuoricini ricamate, immagini sacre. Ma a venire riscattati, poi, erano una minoranza; anzi era frequente il caso che la stessa madre arrivasse a portare un altro figlio, e nei registri ci sono casi in cui venire abbandonati sono uno dopo l'altro quattro o cinque fratelli: anche perché non allattando i figli, le madre tornavano subito fertili, pronte per una nuova gravidanza ma alle prese con i medesimi problemi di miseria.
Erano i figli di quelli che veniva definito con umanitarismo un po' peloso «l'ottimo popolo operaio».Con l'arricchimento del paese, e poi in modo più definitivo con la legge sull'aborto, il flusso si è interrotto, e nel 1984 l'istituto è stato chiuso. Ma non è una memoria che possa andare persa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.