Sul palco Bauman Il teatro racconta la società capovolta

Una «lectio» del grande sociologo polacco e una pièce sul destino della globalizzazione

Sul palco Bauman Il teatro racconta la società capovolta

È colpa della società. Ormai è quasi un mantra: dal ladruncolo che sfila borsellini al folle in strada col machete la colpa è sempre della società, come se anche i peggiori delinquenti, presi uno per uno, fossero campioni di dirittura morale. E adesso ci si mette pure Zygmunt Bauman, uno dei massimi sociologi viventi, ospite stasera al Parenti per il ciclo «Il piacere del testo», che fino al 22 aprile affianca agli spettacoli in cartellone una serie di voci di primo piano della cultura, della scienza, del pensiero, della poesia. Dall'alto dei suoi venerandi 90 anni, Bauman ci spiegherà proprio come tanti buoni individui, messi insieme, possano formare una cattiva società. E se lo dice lui... La lezione magistrale «How good people make bad society» è prevista per le 18.30 a introduzione di «Good people» del drammaturgo americano David Lindsay-Abaire (Pulitzer per il teatro 2007), nella profonda lettura di Roberto Andò: un'opera che emerge dai sobborghi di Boston, dove l'autore è cresciuto, per inscenare il confronto fra «chi ha» e «chi non ha», e la labilità delle nostre categorie morali. Proprio quelle che Bauman mette in discussione, con quell'aggettivo «liquid» che ormai ha l'appeal di un brand filosofico. Liquida è la società, liquida la vita, liquida la modernità, liquida la paura, liquido l'amore. Ma che significa esattamente? Ad esempio che è finito il tempo delle grandi metanarrazioni («segui la tua strada con coerenza e arriverai dove vuoi»), dei precetti edificanti («sii buono e sincero e sarai ricompensato»), delle massime universali («studia e avrai successo»). Semplicemente perché abbiamo realizzato che tutto questo non è più vero: spesso sono palliativi che mascherano profonde iniquità. E ciò che valeva in una società solida, basata su paradigmi incrollabili, oggi non è più scontato. Ogni aspetto della nostra esistenza, compresi gli affetti, è soggetto a un rimodellamento continuo che ci precarizza. La globalizzazione ha annullato le distanze, erodendo il senso dello spazio e contrapponendo un'élite in grado di spostarsi rapidamente a un resto del mondo ancora immobile. L'individualizzazione, cioè la tendenza di ciascuno a percepirsi come soggetto singolo più che come parte di un tutto, ci ha privati di un sistema di riferimento. Tutto parte, per il pensatore polacco, dagli anni '70 e '80, quando ha iniziato a scricchiolare il modello fordista e siamo diventati un'umanità di consumatori. Tramontata la «civiltà del lavoro», viviamo senza anticorpi in un limbo che ci riplasma di continuo, incapaci di progetti a lungo termine. Serve ancora raccontarci storie? Forse può servire la poesia, ma per quella dobbiamo aspettare il 18, quando in cattedra sale Valerio Magrelli, che riflette sulle «monomanie» della letteratura, in occasione del «Malato immaginario» di Molière diretto da Andrée Ruth Shammah.

Il 10 marzo, accanto a «La scuola» di Domenico Starnone, la senatrice Elena Cattaneo, direttore di UniStem, parlerà dell'importanza dell'educazione scientifica. Il 22 aprile, «Finale di partita» di Beckett (regia Lluis Pasqual, nel cast Lello Arena e Gigi De Luca) e lezione filosofica a due voci con Salvatore Natoli e Pierangelo Sequeri.

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