Sul podio e al pianoforte il saluto di Barenboim

Sul podio e al pianoforte il saluto di Barenboim

È un giugno molto milanese per Daniel Barenboim, direttore musicale della Scala (fino al 31 dicembre), pianista, scrittore, personaggio mediatico particolarmente sensibile alla causa israelo-palestinese. Fra una replica e l'altra dell'opera mozartiana Così fan tutte, giovedì (ore 20) sale sul podio dell'Orchestra Filarmonica per un concerto a favore dell'associazione Don Gnocchi, il ricavato della serata andrà alle attività di riabilitazione, assistenza e ricerca scientifica svolte dalla Fondazione e per ricordare don Carlo Gnocchi. Barenboim interviene nella doppia veste di direttore e solista al pianoforte, interprete del Concerto per pianoforte e orchestra K 595 di Mozart, quindi della Quinta Sinfonia di Cajkovskij. Si tratta delle performance d'addio - al ruolo, non certo alla Scala - di questo artista di lungo corso che chiude il suo rapporto con la Scala con Fidelio: l'opera del Sant'Ambrogio 2014. Artista, si diceva, ma pure saggista, autore di testi dove le riflessioni musicali sconfinano nella filosofia, e viceversa. Un comunicatore nato. Lo dimostrerà anche lunedì (ore 18) intervenendo (alla Scala), accanto al sovrintendente uscente Stephane Lissner, per presentare il volume «Teatro alla Scala», testi di Carlo Lanfossi (Skira edizioni), bel corredo iconografico. Un volume pensato anche in vista di Expo, da intendersi come eventuale souvenir scaligero per l'esercito di spettatori che - ci si augura - riempiranno il teatro durante il semestre dell'esposizione. Il testo è un classico dei classici, ripercorre la storia del teatro dai primordi ai giorni nostri, dall'operazione illuminata del governo austriaco (con l'imperatrice Maria Teresa che di suo mise 240,000 lire) e nobiltà milanese all'attualità di un'istituzione che per immagine, leggenda, carico di storia, rimane la numero uno al mondo. Si entra nela galleria di primedonne, compositori, impresari che hanno fatto la storia del teatro e più in generale dell'interpretazione. Lunga sosta sulla Scala di Verdi e di Toscanini. E ovviamente sui cantanti: la Scala è (secondo altri: era) il tempio dei cantanti molti dei quali, ha appena ricordato Alexander Pereira (sovrintendente da settembre), non intendono mettere piede nel teatro poiché timorosi del famoso e famigerato loggione. Anche qui, lunga sosta sulle 2 dive del secondo dopoguerra, Callas e Tebaldi. Raggiungendo gli anni Cinquanta, si assiste alla nascita del mito della Prima della Scala, serata del jet-set internazionale e dell'alta borghesia italiana. Allo stesso tempo, il pubblico cambia pelle, si diversifica, e adare una risposta arrivano il sovrintendente Paolo Grassi e il direttore Claudio Abbado. Si ripercorre così l'era Abbado, quindi Riccardo Muti: due direttori che hanno segnato la seconda metà del Novecento scaligero. Altro anno chiave, il 1996 quando la Scala diventa Fondazione e in quanto tale continua ad attingere ai finanziamenti pubblici, ma inizia anche ad autofinanziarsi. Sopraggiunge la crisi quindi divorzio con Riccardo Muti, quindi l'arrivo di Lissner e poi di Daniel Barenboim. «Nel 2014 – si legge – Lissner va a dirigere l'Opéra di Parigi,ma ha lasciato alla Scala un metodo di lavoro, in cui le programmazioni vengono stabilite anni prima, i cicli sugli autori (Janácek, Britten,Monteverdi) abituano il pubblico alle rappresentazioni meno consuete, le regie creative svecchiano i titoli del repertorio e rendono il teatro vivo.

La parte più elettrica del pubblico scaligero ha accolto magari con entusiasmo gli spettacoli nuovi, ma si scatena nervosamente contro le novità applicate all'opera italiana, soprattutto se di Verdi». L'autore chiude il paragrafo con un naif «Chissà perché?».

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