Ferruccio Annibale
Quasi giornalmente, sul fare del mezzodì, con mamma Ada e i due fratellini, si andava alla Mensa comunale di via Angelo Mosso, alla confluenza con via Padova. Si faceva la coda alla cassa, spendendo poche lire. Quel 20 ottobre, invece, ero con mio padre alla Mensa comunale (o collettiva, che dir si voglia) di piazzale Bacone che era, e lo è tuttora, un'area spaziosa e alberata, tra viale Abruzzi e corso Buenos Aires. Avevamo ritirato il primo e il secondo, immergendoci nel cicaleccio di quelle centinaia di persone, con la recondita speranza che non suonasse l'allarme. Perché in quel caso c'era chi rimaneva a mangiare, ma gli inservienti si recavano al rifugio che era al centro della piazza, scavato nel terreno come una trincea coperta. Capitò che il pre allarme suonasse quando io e il babbo stavamo inforcando le bici per andare a casa, lungo viale Monza, poco dopo i ponti della ferrovia. Mentre eravamo sul punto di avviarci sentimmo l'allarme ma, contemporaneamente, un lontano ampio rombo proveniente dall'alto ci fece alzare lo sguardo verso il cielo terso. Una formazione di aeroplani (non li contai, ma non superavano la decina), ad altezza abbastanza elevata, volava verso Sud. Fortezze volanti, disse mio padre. Un attimo prima avevamo udito un fragore quasi attutito proveniente da Nord. Ciò nonostante, incoscienti o eroici, ci dirigemmo verso casa.
Si percorse viale Abruzzi per arrivare in piazzale Loreto. Imboccato viale Monza, notammo una tenue colonna di fumo in direzione della nostra zona d'abitazione, Turro, oltre i due ponti della ferrovia. La cosa ci turbò. La pedalata si fece più rapida, in sintonia con i battiti del cuore. In quel momento ci sembrava che non esistessero aerei, né traffico - solo noi due - e non ricordavo né aerei né bombardamenti, sebbene il giorno seguente il Corriere della sera avesse affermato che aerei angloamericani avevano bombardato la città. Giungemmo a casa in venti minuti, per il cessato allarme. Nella via non c'era alcunché di anormale, solo persone che discutevano concitatamente. Salimmo velocemente i tre piani e trovammo la mamma in ansia per noi, a causa della forte esplosione udita molto prima, a poca distanza. Ci abbracciò. Ma volli scendere perché la curiosità era forte e venni a sapere di quella strage di bimbi, a 500 metri da casa nostra: a Gorla una bomba aveva centrato la scuola elementare «Francesco Crispi», uccidendo più di cento scolari, oltre agli insegnanti e molti genitori accorsi a prendere i figli.
Nei giorni seguenti si vociferava che la scuola fosse stata bombardata perché i tedeschi avevano dislocato nel sottotetto un loro comando logistico. In quel periodo non esistevano ancora le «bombe intelligenti» che sapevano mirare il bersaglio e ho pensato che, a duemila metri di quota e in quella giornata limpida, l'equipaggio di uno degli aerei, successivamente «angloamericani» ma in quel momento «angloassassini» (come venivano denominati in quel periodo), avendo intravisto la ferrovia come obbiettivo strategico, - ottocento metri oltre la scuola - avesse voluto colpirla.
Si poteva anche considerare che accanto al nostro cortile si trovava una fabbrica che costruiva involucri d'alluminio di bombe di piccolo calibro. Comunque, senza scusanti, mi resi conto che quelle maledette bombe, sganciate da altezza considerevole dovevano essere nate da un terribile sbaglio. Poi, fu solo il lutto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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