di Carlo Maria Lomartire
Per dimostrare che ce l'hanno messa tutta, ma proprio tutta, hanno voluto concludere che quasi albeggiava, verso le 4 di mattina - ma non oltre, per salvare il fine-settimana lungo, intoccabile d'estate. Infatti, adottando anche per questo surreale dibattito in Consiglio comunale sulle unioni civili una perversa prassi utilizzata per le trattative sindacali, tirando mattina ciascuna delle parti ha potuto dimostrare ai propri supporter di aver fatto il massimo per tenere le proprie posizioni: una estenuante gara di fondo, quasi dodici ore per la terza seduta che l'assemblea di Palazzo Marino ha dedicato a questo argomento. I tempi, comunque, sono stati allungati anche dalla circostanza che ciascuno degli schieramenti aveva i suoi dissidenti: il cattolici del Pd da una parte e i cosiddetti «laici» nel Pdl dall'altra, con tutti i loro distinguo e i loro cavilli etici e libertari, che, anziché agevolare un compromesso, lo hanno reso ancora più difficile.
Il risultato, perciò, come sempre in questi casi, non accontenta nessuno, se non, almeno apparentemente, Pisapia, che, il giorno dopo lo schiaffone del Consiglio di Stato sulla tanto amata Area C, ha potuto sventolare sotto il naso dei suoi ormai perplessi fans arancioni il tanto agognato registro delle unioni civili, uno dei capisaldi più caratterizzanti del suo programma elettorale. Il sindaco, travolto dall'entusiasmo, ha esagerato non poco con l'enfasi nel manifestare soddisfazione per questo risultato: «Da oggi a Milano ci sono più diritti» ha affermato col piglio, degno di miglior causa, del riformista combattivo e vittorioso. Il riferimento, citazione non si sa quanto intenzionale ma certamente temeraria, è con tutta evidenza al titolo dell'articolo di Pietro Nenni sul quotidiano socialista «Avanti!» quando, quasi 50 anni fa, il Psi entrò a far parte del primo governo di centrosinistra: «Da oggi siamo tutti più liberi». Ma, francamente, l'accostamento è del tutto fuori luogo.
Anche perché, come sempre accade quando si vuole accontentare questo e quello, il risultato è piuttosto pasticciato. Ad esempio è scomparso ogni riferimento esplicito al matrimonio ed è esclusa qualsiasi forma di rito ufficiale. Così gli omosessuali protestano rivendicando il diritto a fiori d'arancio e lanci di riso, che però nessuno impedisce loro di adottare in proprio, non servendo l'autorizzazione del Comune. Poi non si parla più di «insieme di persone legate da vincoli affettivi» ma di «due persone», sventando così il rischio di legalizzazione della poligamia ma evidentemente includendo l'unione omosex. Ci vorranno sei mesi di convivenza accertata per iscriversi al registro e sei mesi di separazione per sancire la «disunione civile». Quindi avanti tutta con la burocratizzazione di un rapporto che si voleva più libero: al confronto un banale e tradizionale matrimonio civile sembra semplice e sbrigativo come una stretta di mano. Resta da capire perché chi vuole evitare la formalizzazione burocratica del matrimonio vada poi a ficcarsi in quella non meno arzigogolata delle unioni civili.
Ma come sottilinea Avvenire, il giornali dei vescovi italiani, si tratta di un provvedimento «utile solo a fini propagandistici e di pressione politica e lobbistica sul Parlamento».
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