nostro inviato a Londra
Mamma mia l'aria è quasi immobile alla 02 Arena quando sul palco arrivano loro e immediatamente riportano la musica indietro nel tempo, come se ventisette anni fossero un soffio. I Led Zeppelin, signori. C'è gente che qui è arrivata dall'Illinois o che, come un ragazzo di Glasgow, ha vinto l'asta benefica della Bbc e ha strappato il biglietto sborsando 83mila sterline, che sono 115 mila euro, per essere qui stasera a vedere Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e Jason Bonham, che è il figlio di John «Bonzo», il quarto musicista del gruppo morto a settembre del 1980 dopo un'indigestione di vodka, tre mesi prima che il dirigibile volasse via per più di un quarto di secolo senza lasciare speranze. Bentornati, allora, e non c'è dubbio: questa musica mancava a tutti ma non se ne è mai andata e ci voleva questo concerto in ricordo di Ahmet Ertegun, il fondatore della Atlantic, per rendersene conto. D'accordo, in classifica oggi ci sono Carrie Underwood o Josh Groban o chissà chi altro ma tutto negli anni Settanta è passato di lì, dagli Zeppelin. D'altronde nel rock è tutta una questione di Good times, bad times, bisogna accettare la buona e la cattiva sorte e forse per questo i Led Zeppelin, cioè il gruppo che ha fatto diventare maturo il rock, hanno deciso di inaugurare lo strepitoso concerto del ritorno con questo brano, Good times, bad times che ha colpi secchi della chitarra e la voce inarrivabile di Robert Plant, biondo come non mai, sinuoso e ondulato e capace di essere sexy, sì sexy, anche se ha 59 anni, si è rotto le anche in un incidente stradale del 1975 e quando gli parli, ora che è pure nonno, negli occhi ha il rimpianto liquido di quegli anni fantastici, quando i suoi Led Zeppelin viaggiavano sullo Starship, sul jet privato, e facevano feste ad alta quota dopo aver suonato tre sere di seguito nel Madison Square Garden di New York tutto esaurito facendo dire agli americani «ma allora il rock può avere un volto nuovo». Com'era? Era come quello di stasera e cioè vivo, perdio, ricamato di folk e di blues e di jazz, capace di avere mille watt e un cuore largo così affidandolo a tre strumenti e a una voce e basta, niente di più, come se la musica per una sera fosse tornata a quella che dovrebbe sempre essere: uno sfoggio di bravura tecnica e un disperato bisogno di comunicare anche rimanendosene lassù sul palco. Stasera i Led Zeppelin lo hanno fatto su queste piccole assi della O2 Arena con di fianco due schermi e dietro un ledwall come potrebbero avere quasi tutti i gruppi del mondo, tutti magari ricchissimi, bellissimi e famosissimi ma nessuno capace di far seguire un pezzo sognante e irsuto come Ramble on a una bordata rock e poi subito dopo ammettere di essere un Black dog, un cane nero, un ribelle che se ne frega delle regole e, se proprio deve, ne inventa delle nuove che a nessuno erano venute in mente prima. Come gli assoli alla chitarra di Jimmy Page, finalmente bianco di capelli dopo decenni di tintura, orgoglioso e immobile, impossibile da raggiungere perché lui con quelle dita ha fatto la storia della musica, ha pennellato l'assolo mostruoso e frenetico di Whole lotta love (esplosione devastante del pubblico) e la cavalcata che parte dall'anima a arriva non si sa dove di Stairway to heaven. E quando lo canta qui, Robert Plant non ha bisogno di aggiungere altro: la gente è rimasta senza fiato. Muta. Dopo 27 anni dall'ultimo concerto a Berlino (fatta eccezione per qualche apparizione da dimenticare come al Live Aid nel 1985) i Led Zeppelin sono tornati sul palco per fare sul serio: due ore di concerto più o meno, tutti i loro brani famosi più un inedito, un brivido come raramente si è sentito in una platea rock.
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