Il mio amico

Marco Biagi era un amico. E questo libro glielo dovevamo. Per amicizia certo, ma soprattutto per ragioni di giustizia storica. Per far chiarezza, una volta per tutte, sul riformismo suo e di quanti hanno lavorato con lui, e soprattutto sul conservatorismo, sui pregiudizi ideologici, sulle infamità conformiste dei tanti, troppi nemici e detrattori, tanto nel sindacato, quanto nel mondo dell’accademia e della sinistra politica.
Con Marco avevamo scritto un «Manifesto», pubblicato sul Foglio il 7 aprile del 2001 (assieme a Giuliano Cazzola e Maurizio Sacconi) in cui erano contenuti in sintesi tutti i capitoli che poi avrebbero visto la luce nel suo ormai famoso «Libro bianco», che qui pubblichiamo integralmente.
Marco era fatto così: rigoroso e generoso, intelligente e aperto, per bene. Le idee che aveva maturato in tanti anni di lavoro e studio le metteva a disposizione di chi poteva apprezzarle e realizzarle. Non importava si chiamasse Treu, Brunetta o Maroni. In questo stava la sua grandezza, la sua onestà intellettuale, che faceva impazzire letteralmente i poveri di spirito, gli invidiosi, gli ipocriti e i tanti cretini, anche se con il prof. davanti al nome. E in questa mia introduzione al suo libro farò nomi e cognomi.
A partire da quello del prof. Tiziano Treu, giuslavorista di valore, più volte ministro. Ministro del Lavoro con cui Marco aveva avuto una intensa collaborazione (il cosiddetto «pacchetto Treu» porta in gran parte la firma di Biagi).
Ecco Tiziano Treu, per puro calcolo politico, non ha sopportato che il buon riformismo potesse essere di casa anche nel centrodestra, e si è messo così in prima linea nel criticare, nello smontare, nel combattere il lavoro di Marco, lavoro che altro non era che la continuazione pura e semplice, nel senso dell’esperienza e delle maggiori garanzie, di quanto già realizzato nel pacchetto Treu.
Ebbene Treu, col suo atteggiamento, ha insopportabilmente contribuito ad isolare Marco, con la cattiva compagnia di quasi tutta la lobby giuslavoristica accademica. Sarebbe bello rileggere oggi gli atti dei loro seminari, gli articoli cosiddetti scientifici nelle loro riviste. Che pusillanimi, che tristezza.
Tiziano Treu è persino arrivato, in linea becera con tanti altri, a non voler chiamare col nome del suo amico e collaboratore la sua legge, ostentando il numero «trenta»: legge trenta, sì, per non dire legge Biagi. Che orrore, che piccineria.
Di Cofferati ed Epifani dirò pochissimo, anzi nulla. Spero solo che prima o poi facciano un serio esame di coscienza, come sindacalisti e come uomini. E basta così.
Così come spero faccia un bell’esame di coscienza quel giornalista televisivo che, intervistandomi in diretta a poche ore dalla vile uccisione di Marco voleva farmi dire che nel sindacato della Cgil c’erano i mandanti (più o meno morali) di quell’assassinio. Io, tra le lacrime, gli diedi del cretino, in diretta, e ancora ne sono orgoglioso.
E vengo invece alle persone per bene: Pietro Ichino. Ha sempre detto la verità, controcorrente rispetto alla vulgata demonizzante dei tanti «opinion leaders» da strapazzo. Un solo rimprovero affettuoso: non è vero che il centrodestra abbia «usato» Biagi, facendone una bandiera, per fini propagandistici. Né Maroni, né Sacconi, né il sottoscritto, ma neppure Berlusconi hanno mai, per un solo momento, ceduto a tale tentazione, pur sempre possibile in politica.
Il governo Berlusconi, e lo dico con cognizione di causa, è stato, grazie soprattutto a Biagi, ma non solo, uno dei più «pro-labour» del dopo guerra. Solo che le relative azioni politiche non venivano «concertate» con i riti di potere tanto cari alla Cgil. E questo bastava per farli impazzire, letteralmente.
E qui mi fermo sul passato. E veniamo ad oggi. La montagna dell’odio alla legge Biagi ha prodotto il topolino del protocollo del 23 luglio 2007. Senza pudore la Cgil accetta la conferma praticamente di tutto l’impianto della legge Biagi. Senza pudore e senza vergogna. Che schifo. Meglio la sinistra comunista, antagonista, fondamentalista che almeno coerentemente rincorre le sue follie. Meglio la loro coerenza che l’opportunismo di chi aveva demonizzato Biagi e il suo lavoro e poi, come se niente fosse, lo fa proprio, cercando di salvarsi l’anima con qualche spudorato distinguo. Ma l’animaccia loro non si salverà.
Il 20 ottobre assieme a Maurizio, Giuliano, Alessandra testimonierò tutto questo.

Testimonierò il dolore di vivere in un Paese in cui se fai l’economista o il giurista del lavoro, e vuoi essere riformista, vieni ammazzato come Tarantelli, D’Antona, Biagi, o vivi blindato, come il sottoscritto e tanti altri. Che razza di Paese è mai questo. Ma in fondo, non importa, quel che importa è essere in pace con la propria coscienza e stare da una parte sola, come diceva Giacomo Brodolini, dalla parte dei lavoratori.

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