Il capitano Victor Coste, poliziotto leggendario ferito dal suo stesso lavoro, si è autoritirato sull'isola di Saint-Pierre, un pezzettino di Francia sperduto fra il Canada e Terranova. E qui, fra le nebbie dei capelani (un fenomeno mistico/fantasmagorico) e i pochissimi abitanti, gestisce una safe house del programma nazionale per i pentiti. Dove arriva, a sorpresa, una vittima: Anna, unica sopravvissuta a un mostro, un serial killer che rapisce, tortura e uccide ragazzine, e che la polizia francese insegue da dieci anni. Questo è Il pesatore di anime (Rizzoli, pagg. 396, euro 18), nuovo romanzo di Olivier Norek, ex poliziotto e noirista da due milioni di copie in Francia.
Chi è il pesatore di anime?
«Un investigatore che deve cercare di valutare se la persona che ha davanti meriti o no di essere salvata, se darle una nuova vita e una nuova identità: deve capire se chi ha davanti sia veramente pentito. Nel libro, Anna non è un pentito, ma Coste deve cercare di capire chi si trovi davanti e ottenere informazioni da lei, per catturare il mostro».
È una esperienza che ha vissuto?
«Non ho potuto farlo perché non sono più in polizia da qualche anno e questo gruppo del programma protezione è nato da poco in Francia».
Avrebbe voluto?
«Alcune mie caratteristiche sono la sensibilità e l'empatia e, a volte, le emozioni sono un ostacolo. Non credo sarei stato un buon pesatore di anime: serve un certo distacco, la capacità di non lasciarsi coinvolgere».
Eppure Coste questo distacco non lo ha...
«Infatti è un personaggio che mi somiglia. Nel romanzo, il capitano deve rileggere le informazioni che ha, filtrate da sensazioni diverse: quello che sembrava la verità può rivelarsi una menzogna e, d'altra parte, quello che sembrava una menzogna può nascondere la verità».
Come ne esce?
«È un personaggio che vive nella nebbia, nelle brume dei capelani: forse è quello meno adatto a risolvere una missione, ma è proprio questo che lo spinge a sublimarsi e perfezionarsi, così da diventare più forte e reinventarsi».
È questo che può portare alla soluzione?
«Se non evolvesse, non sarebbe capace di risolvere l'indagine. È necessario che sia rotto in mille pezzi, e poi ricostruito, e che capisca perché sia così rotto... Tutti i personaggi principali del romanzo sono stati rotti, in qualche modo: Coste, Anna, Russo. E a tutti è data una seconda possibilità, la capacità di cambiare e avere una nuova vita».
Che poliziotto è Coste? E lei?
«Il capitano Coste è un poliziotto più interessato ad aiutare le vittime che ad arrestare l'assassino. Io ero un poliziotto orientato ad aiutare la vittima, ma ci sono anche poliziotti orientati a catturare l'assassino: la finalità è la stessa, ma filosoficamente è un po' diverso».
Nella pratica?
«Ci sono cose giuste da fare, previste dal codice penale, e ci sono cose giuste da fare, che non sono nel codice penale: un poliziotto capisce chi sia quando, di fronte a una cosa giusta da fare, decide di superare quella linea bianca oppure no».
Perciò lei ha iniziato nelle missioni di soccorso in Guyana e nell'ex Jugoslavia in guerra?
«Vorrei rispondere di sì, ma non è così. Per me era importante dirigermi verso gli altri, trovare un mio posto nella società; ma, a volte, lo sguardo degli altri può essere un freno o un giudizio, e questo accade sempre più spesso a molti giovani oggi, con i social, per cui lo sguardo dell'altro può essere una maledizione».
E i diciotto anni da poliziotto?
«Questa esperienza mi ha permesso di scrivere i miei primi tre libri. Avevo a che fare soprattutto con casi di rapimento e di aggressioni sessuali, e quindi la materia prima era la relazione umana: bastava un granello di sabbia per compromettere tutto il lavoro».
Lavorava nella banlieue parigina.
«Il 93esimo distretto, Seine-Saint Denis, è la zona a più alto tasso di criminalità di Francia: ho incontrato persone che hanno vissuto situazioni drammatiche, ed è proprio in queste situazioni che ci si mette a nudo, che è necessario vedere la persona per quella che realmente è».
Quindi la violenza che c'è nel libro è reale?
«Il mio obiettivo non è compiacermi della violenza: non ho aggiunto niente, quella nella realtà è già abbastanza. Non ho inventato nulla rispetto a quello che ho riscontrato. Però è un libro violento, dove non si vede la violenza: chiudo la porta prima di descriverla».
La cosa più difficile del suo lavoro di poliziotto?
«Due cose. Primo, non riuscire a risolvere un caso: non trovare l'assassino è terribile, la vittima diventa un fantasma, perché non ha avuto giustizia. E poi annunciare la morte di una persona alla sua famiglia: a volte, davanti alla porta, sentivo ridere dentro casa e non riuscivo a suonare il campanello, perché sapevo che avrei distrutto la loro felicità, il loro universo...».
Tutto il romanzo è sulla caccia a un mostro, che però è invisibile, perché è uguale a tutti gli altri.
«La dualità dei personaggi è centrale. Il mostro è una persona normale e, proprio per questo, è terrificante. Possiamo essere eroi e mostri: tocca a noi scegliere».
La versione della vittima, Anna, a un certo punto viene messa in discussione.
«La donna è fatta come l'uomo e, come l'uomo, a volte non è così buona... Oggi si tende a esagerare su questo. C'è la violenza nei confronti delle donne, ed è un argomento che ho molto, molto a cuore, ma ero interessato a notare che esistono anche donne meno angelicate di quello che pensiamo».
Perché il capitano Coste piace tanto?
«Perché è una persona che può esistere davvero, non è un supereroe: è facile identificarsi in lui, anche molti miei colleghi poliziotti me lo dicono.
Coste sbaglia, si lascia ingannare, prima di scoprire la verità fallisce: può essere come me e lei... Però, se è necessario, è capace di fare cose straordinarie, e questo ci fa pensare che possiamo riuscirci anche noi».
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