«Il mio cuore batte per il jazz ma do la scossa alla classica»

La sua voce dagli acrobatici vocalizzi ha cambiato la storia dell’improvvisazione nel canto jazz. È Bobby McFerrin, baritono dall’estensione incredibile capace di qualunque gioco vocale, quello del megasuccesso Don’t Worry Be Happy, ma è soprattutto un artista colto che saltabecca dai suoni contemporanei (esce in questi giorni il cd VOCAbuLarieS, scritto così perché spicchi la parola «vocals») alla guida dei Wiener Philharmoniker e che ieri sera ha aperto il suo tour italiano (con uno show benefico per la Croce Rossa) come direttore dell’orchestra della Scala - come fece tre anni fa - animando pagine come Capriccio Espanol di Rimskij-Korsakov, brani tratti da Bernstein e «fantasie» dal suo repertorio.
Il suo motto è stupire...
«La mia è un’anima jazz, ma sono nato con la classica. Mio padre è stato il primo afroamericano ad avere ruoli importanti al Metropolitan di New York; ho studiato clarinetto, flauto, pianoforte prima di capire che il canto è arte senza frontiere».
Comunque non è facile passare dal jazz alla classica.
«Vivo d’improvvisazione quindi il jazz è il mio pane quotidiano. La classica è prevedibile, sali sul podio e sai già ciò che succede, anche per questo sfido orchestra e pubblico, incitando tutti a partecipare, col corpo e con la voce».
I puristi non saranno felici di ciò, e neppure della bacchetta che lei s’infila tra le trecce.
«Quello è un gioco, per fortuna ho i capelli lunghi! Se non si scuote, la classica rimane chiusa in una torre d’avorio. Io prendo brani che mischiano nobiltà e tradizione popolare come la Pavane di Fauré o il Bolero di Ravel. Non sono né il primo né l’unico ad abbattere gli schemi, faccio Somewhere di Bernstein che nasconde un tema tratto dal Concerto per piano e orchestra n.5 di Beethoven, opera nota come L’imperatore. Comunque dopo questo tour non dirigerò più, torno alla mia musica».
C’è il nuovo cd.
«Ci ho lavorato otto anni, è il disco più strano che abbia mai fatto. Per la prima volta ho messo a disposizione di un compositore, Roger Treece, tutto il mio materiale inedito e lui ha trasformato le cose più interessanti in partiture. Così ora sono brani miei e allo stesso tempo non miei, vecchi e nuovi. È un omaggio alla musica totale, alla musica libera».
Lei fa cose sempre più complesse ma il suo più grande hit è «Don’t Worry Be Happy».
«Quel brano mi ha dato la grande popolarità e la possibilità di dedicarmi alla sperimentazione. È nato per caso in pochi minuti; un giorno camminavo per le strade di New York fischiettando ed è nata la melodia, poi siccome sono ottimista è arrivato il testo».
Lei ha cantato con tante star: con chi s’è trovato meglio?
«Con Chick Corea ci capiamo al volo, ricordo grandi sfide con la voce di Al Jarreau, mi piace la fantasia di Laurie Anderson.

Ma chi mi ha più influenzato è Keith Jarrett; non ci siamo mai esibiti insieme, ma il suo pianoforte ha cambiato la mia vita».
E ora ha nuovi progetti?
«Una nuova sfida, voglio organizzare un duetto con Eric Clapton. Il blues non fa parte delle mie radici e quindi provo ad affrontarlo».

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