«Mio figlio disperato in mano ai pirati ripete: meglio morto che così»

Di loro non si sa niente. Si immagina solo. E quello che viene in mente fa paura e rabbia. I dieci marinai italiani rapiti dai pirati quasi tre mesi fa, sono ancora lì, nelle acque del Golfo di Aden che aspettano di essere salvati. Sono prigionieri a bordo del loro Buccaneer. Un inferno di quaranta gradi. Non hanno da bere, da mangiare. Li hanno catturati l’11 aprile e da allora sperano che succeda qualcosa, una parola, un messaggio, qualcuno che dica: siete liberi. Mario Iarlori, il comandante, il 2 giugno diceva disperato: «Per favore liberateci». A Torre del Greco c’è una famiglia che aspetta ogni giorno di avere notizie. Dalla Farnesina le dicono di avere pazienza. Per un po’ hanno ubbidito, in silenzio, senza chiedere nulla. La condizione peggiore. Tutto è attesa continua e spossante. Opprimente. Ci sono mogli e figli, parenti e amici. Madri e padri. Uno di questi è Pasquale Vollaro, il papà. Attende che il telefono squilli, che arrivi una notizia senza che sia lui a disturbare, a intralciare il lavoro dei «canali buoni». Ogni giorno spera di vedere il figlio Giovanni libero.
Nessuna notizia?
«Nessuna. La moglie e mio nipote sono qui, distrutti. Questa è una tortura tremenda».
Anche lei è un marinaio?
«Siamo una famiglia di pescatori. Il mare ci ha dato sempre da mangiare. Ma non è il mare ad essere cattivo. Sono gli uomini».
Lei non voleva parlare. Ha detto che questa intervista avrebbe fatto arrabbiare quelli del ministero degli Esteri. Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Mi hanno detto che non devo parlare. Ma stare zitti dopo oltre 70 giorni è difficile e insopportabile. C’è il senso di impotenza e di abbandono. Non ci sono novità e ogni volta la risposta è sempre quella che assicura che ci sarà una svolta. Ma la meta non si tocca mai».
Dopo 75 giorni di attesa si può ancora avere fiducia?
«Soffriamo. Ogni giorno è uguale all’altro. Non facciamo che pensare a lui. A come sta Giovanni. Contiamo le scadenze degli ultimatum e la telefonata che dice che ce ne sarà un altro».
Quando lo ha sentito l’ultima volta?
«Una decina di giorni fa. È riuscito a chiamare con il telefono satellitare. Ma le loro telefonate sono tutte controllate. Non lo sentivo da un mese. Le lascio immaginare il nostro stato d’animo. Viviamo nell’angoscia e nella solitudine più totale, in attesa di una telefonata che ci possa ridare serenità».
E gli altri compagni?
«Non so niente, non si è nemmeno sicuri che siano tutti insieme».
Al telefono hanno detto che oramai preferirebbero morire che stare così. È vero?
«Sì, le loro condizioni sono insopportabili. Non hanno niente. Ci dicono che è meglio la morte. Lo sa cosa significa questo per un padre? È una pugnalata. Io non ce la faccio più. Nessuno di noi ce la fa più».
Com’era la sua voce?
«Sentivo la paura. Giovanni aveva paura».
Quali sono le condizioni a bordo?
«Hanno fame e sete. Mangiano un piatto di riso in tutto il giorno. Gli danno mezzo litro d’acqua quando va bene. Le condizioni sono terribili. Sono distrutti. Si sentono abbandonati».
Cosa vi dicono dalla Farnesina?
«Di aspettare, di avere fiducia che sperano in una soluzione rapida».
Nessuna promessa?
«Purtroppo quello che continuano a ripetere è di non parlare. Di evitare di fare troppa pubblicità. È la procedura mi dicono».


E lei cosa farebbe?
«Se fosse per me avrei già fatto la guerra. Della storia dei nostri ragazzi rapiti dai banditi e abbandonati non ne parla nessuno. Fosse per me andrei in televisione, parlerei ai giornali, racconterei al mondo intero cosa stanno soffrendo quei poveri ragazzi».

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