«Il mio futuro al Piermarini? Resto in Sassonia fino al 2015»

Direttore d'orchestra e gentiluomo. Garbato, ma con il fervore di un fanciullo. Sprizza una vitalità latina che fa i conti con un'intransigenza artistica, si direbbe, teutonica. Ma soprattutto, ha l'entusiasmo vorace di cittadino del mondo che, dove approda, sconvolge la routine. Ecco Riccardo Chailly, direttore milanese, fra i più solidi ambasciatori dell'Italia nel mondo. Ora lavora là dove batte il cuore della musica tedesca, dove vissero e operarono, fra gli altri, Bach, Mendelssohn e Schumann. Chailly è a Lipsia: fucina di artisti e culla di un’orchestra fra le più antiche d'Europa, quella del Gewandhaus di cui è diciannovesimo Kapellmeister. Riccardo Chailly è in questi giorni a Milano con un fitto calendario. Dopo l'incontro con il pubblico, alla Feltrinelli, dove ha parlato del suo ultimo disco su Mendelssohn (Decca), giovedì, alla Scala, ha chiacchierato con il pubblico assieme all'amico pianista Maurizio Pollini. I due artisti sono i protagonisti del concerto di stasera alla Scala.
Cosa ci dice, da milanese e direttore, del ritorno di Claudio Abbado alla Scala dopo la lunga assenza?
«Evviva! Ma ci volevano tutti questi anni? La mia speranza, da milanese e amico, è che questo ritorno segni una presenza costante».
E lei? Cosa ci dice del suo futuro scaligero?
«Ho un contratto con il Gewandhaus fino al 2015. Lipsia mi assorbe in modo quasi totale, tant'è che ho ridotto e andrò ulteriormente riducendo le collaborazioni esterne. Mi piace l'idea di collaborare intensamente con un complesso, specie se è scattata un'alchimia particolare. I miei occhi ora sono tutti sul Gewandhaus».
Da artista che ben conosce i tedeschi: ritiene che la Germania continui ad essere, musicalmente parlando, la Germania di una volta?
«Sì. A Lipsia, per esempio, non è pensabile una vita staccata dalla musica. Nella mentalità cittadina, il Gewandhaus è un luogo imprescindibile, fa parte della quotidianità».
Nascono orchestre nel Qatar, festival a sette stelle negli Emirati Arabi. In Cina c'è un'esplosione di interesse per la classica. Sono sfide o risorse?
«C'è chi ironizza sul fatto che fino a pochi anni fa in quei Paesi non ci fosse neppure una sala. Però ora si galoppa, si avanza più di quanto si faccia in Europa e in Italia dove la tendenza è quella di distruggere il patrimonio culturale».
Quando sale sul podio, lei comunica una forte carica energetica. Pare proprio felice di dirigere. È così?
«Quando sono sul podio mi impongo di farmi prendere dall'entusiasmo, mi sforzo sempre di salvare il ragazzo che è in me. E l'entusiasmo che sprigiono è autentico. Ma quando rientro a casa e ripenso all'interpretazione sono spietato con me stesso, al punto che l'autocritica rasenta l'autodistruzione».
Il direttore è uomo da comando. Come si domina un'orchestra?
«Attraverso il potere magico della lettura interpretativa. Poi, certo, ci sono questioni diciamo chimiche, come in tutti i rapporti, dove scattare un'alchimia di intenti».
Quanto istinto e quanta scuola c'è dietro un gesto direttoriale?
«Il gesto, bello o brutto che sia, è la visualizzazione dell'anima poetica di un direttore. A scuola si studia una tecnica, ma poi la gestualità è dettata anche dalla struttura delle ossa del braccio, della muscolatura, dalla forza del viso e dello sguardo».
Quanto conta lo sguardo in un direttore?
«Ricordo il mio insegnante Franco Ferrara, durante i corsi a Siena.

Muoveva a fatica le braccia eppure l'orchestra andava divinamente assieme: ma come è possibile, dicevo. Poi mi accorgevo dell'intensità dello sguardo, degli occhi che sprigionavano una forza soggiogante e magnetica. Gli occhi spesso superano le braccia».

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