«Il mio giallo sull’Irak racconta lo choc dei reduci di guerra»

Paul Haggis parla di «In the Valley of Elah», autorevole pretendente al Leone d’oro: «Sì, è un’opera politica, ma non mi pare faziosa»

da Venezia

Alfiere del cinema industriale di qualità, Paul Haggis ha scritto Crash - Contatto fisico (l'ha anche diretto), Million Dollar Baby, Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima e Casino Royale, tutti confortati da incassi e Oscar. Ieri In the Valley of Elah («Nella valle di Elah», quella di Davide e Golia, non quella della Crema Elah) da lui diretto e scritto ha concorso alla Mostra di Venezia. Ora è autorevole pretendente a Leone d'oro e coppa Volpi: Tommy Lee Jones è perfetto, Charlize Theron regge il confronto. In the Valley è un bel film di genere: un padre (Jones) indaga sull'assassinio del figlio con una poliziotta (la Theron); insieme scopriranno che, reduce dall'Irak, quel figlio non era più lo stesso.
Signor Haggis, Redacted di De Palma, in concorso l'altroieri, è di nicchia. In the Valley è per tutti.
«Volevo che lo fosse. Infatti nessuno negli Stati Uniti racconta la verità su ciò che accade in Irak».
I giornalisti...
«... Non fanno più il loro mestiere: in Irak sono incorporati nelle truppe e censurati. Se criticano, sono fuori».
Dunque...
«Gli artisti li sostituiscono nel denunciare la corruzione all'origine della guerra».
La corruzione?
«La corruzione politica».
E poi?
«I tanti suicidi di reduci, per esempio».
Lei la pensa come George Clooney.
«Sì. Good Night, and Good Luck è magnifico e l'ha girato quando opporsi a Bush era meno facile che ora. E ora qui qualcuno gli ha rimproverato la pubblicità!».
Ci sono dei duri e puri all'estrema sinistra.
«Confrontino Clooney con altri attori che non spendono certo i loro guadagni per film personali».
Lei quando ha scritto In the Valley?
«Nel 2003-2004, quando quasi ogni auto, quasi ogni casa negli Stati Uniti esponeva la bandiera».
Avrà avuto problemi a trovare i finanziamenti.
«Sì. Gli studios sono delle multinazionali, che temevano per l'incasso, in quel clima».
Gli studios hanno sempre temuto per gli incassi, per ogni film, in ogni epoca.
«Ma allora Bush aveva con sé l'ottanta per cento degli americani e Hollywood era terrorizzata».
Terrorizzata?
«Sì. Chi non si dichiarava patriota passava per traditore».
Qualcuno lo scrisse di Clooney.
«Esattamente».
Che cosa ha cambiato l'opinione pubblica sull'occupazione dell'Irak?
«La scoperta che le armi di distruzione di massa non c'erano. Poi le foto e i video amatoriali - accompagnati da musica rock - dei reduci. Immessi su Internet, mostravano le atrocità».
E In the Valley...
«... Trae spunto da uno di questi casi. Mi colpì il cadavere di un bambino investito da un blindato».
Un incidente, forse.
«No, l'ordine era di non fermarsi per nessuna ragione, nel timore di attacchi».
È l'immagine dopo i titoli di coda?
«Proprio quella. L'ho ricostruita nel film».
E il resto?
«Viene dal reale assassinio di un reduce, conclusosi con la condanna dei colpevoli».
Il suo film è un giallo. In apparenza.
«In sostanza è un film politico. Ma non fazioso».
Reazioni?
«L'ho mostrato solo a un'associazione di reduci, per ora. Mi hanno ringraziato».


Qual è il loro cruccio?
«La causa del loro choc, peggiore di quello dei reduci delle guerre mondiali? Aver ucciso civili».
Dresda, Amburgo, Hiroshima, Nagasaki... I bombardieri han fatto peggio.
«Sì, ma gli equipaggi erano motivati contro il nemico e poi non vedevano le vittime da vicino, dopo».

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