«Le storie di Pratt? Un momento, bisogna distinguere: le storie erano mie. Suoi erano i disegni». È forse questo il cuore dell'intervista-ricordo che lo scrittore e giornalista Alberto Ongaro ci concede in ricordo di Hugo Pratt. E pare detto, ora, senza rivendicazione: solo per ricordare meglio - il veneziano Ongaro appartiene alla classe 1925 amicizia e sodalizio professionale. E quel carattere così particolare di Pratt che già Ongaro provò a ricostruire in un ritratto in fiction che, nel 1971, vinse il premio Campione d'Italia, presidente della giuria Eugenio Montale: Un romanzo d'avventura (Piemme). Il protagonista di quelle pagine era proprio Hugo Pratt, il creatore di Corto Maltese, in un'avventura con le sue creature immaginifiche. Ongaro racconta che quando Domenico Porzio pubblicò il libro per la prima volta per Mondadori, conoscendo il «carattere alla Pratt», chiamò Hugo e glielo fece leggere e poi controfirmare pagina per pagina. Pratt firmò, l'ennesimo suggello del rapporto con l'amico e alter ego Ongaro. Altre volte Ongaro però ha raccontato che inviò a Pratt il romanzo con la dedica: «Caro Nessuno, non ti riconoscerai negli avvenimenti, ma sono sicuro che ti riconoscerai in altre cose». E che Pratt la prese con malinconia, perché nel romanzo si parlava anche d'amore, e delle sue donne. La stessa storia, versioni diverse. È così, con Pratt e Ongaro: è la mezcla tra realtà e fantasia a vincere, sempre.
Come vi siete conosciuti?
«Ci siamo incontrati per la prima volta per la strada. E ci siamo fermati di colpo tutti e due. Non ci eravamo mai visti prima, ma ci siamo riconosciuti. Perché ciascuno dei due vedeva qualche cosa di suo nell'altro».
E decideste di unire le vostre somiglianze.
«Pratt non era nato da mamma e papà, ma dai giornali. Dai fumetti americani che aveva letto in Africa orientale, durante la prigionia in campo di concentramento con la sua famiglia. Lui aveva potuto leggerli, grazie agli inglesi, noi no, perché in Italia il fascismo aveva imposto, a parte Topolino, solo disegnatori italiani».
La sua passione invece da che fumetti nacque?
«Dall'Avventuroso. Per me, ma in generale per noi ragazzi di allora, forse fu la più grande scuola di antifascismo: Mandrake, Flash Gordon, l'Uomo mascherato. Lo pubblicava Nerbini e però fu costretto a chiuderlo prima del 1940, per via della censura. Fu per ricreare l'atmosfera di quelle storie che volli provare a fare un nuovo giornale per ragazzi, insieme a Mario Faustinelli, mio cugino: lo chiamammo Asso di picche».
E la coppia prese il via.
«Hugo non ne sapeva nulla, ma qualche amico comune gliene parlò. Venne in redazione con un bel gruppo di disegni. Dai quali si capiva che sarebbero venute fuori storie straordinarie».
Che cosa dicevano quei disegni?
«La guerra era finita. Le nostre avventure erano la Resistenza. Hugo era stato più fortunato: in Africa aveva familiarizzato con inglesi e americani, aveva imparato la lingua, era tornato in Italia da poco. Aveva in mente l'intero universo. Il mondo che proponevamo doveva conservare qualcosa di mitico, di epico, di caro, di colto. Doveva contenere le cose del liceo e dell'Università. Un genere nuovo».
E un editore argentino, Abril, vi notò e vi portò via.
«Giovani e innamorati del Sudamerica: Hugo e Mario si imbarcarono subito, io li raggiunsi più tardi. L'editore stava in Argentina ma i soci erano ebrei italiani scappati là dopo le leggi razziali. Cesare Civita, ex direttore editoriale Mondadori negli anni Trenta, aveva fondato nel 1941 l'Editorial Abril. Aveva capito che era partita l'epoca d'oro del fumetto. E ci ha invitati a Buenos Aires, a scrivere e disegnare sul Salgari».
Una lunga, meravigliosa fuga.
«Io sono rimasto sette anni in Argentina, Hugo dodici. Abril ci diede libertà nel nostro lavoro e una serietà che era legata a questa libertà. Perché la guerra era finita e le storie venivano fuori in modo diverso, più fresco, più giovanile e forse anche più americano. Ma anche perché avevamo conservato tutti i giornali di allora, che erano costante fonte di ispirazione. Il più grande conservatore era Hugo: guai a toccargliene uno, aveva intere collezioni».
Poi lei tornò in Italia, all'Europeo, che in quegli anni aveva in redazione la Fallaci. Altre avventure.
«Tornai e fui assunto all'Ansa, poi passai all'Europeo. Con la Fallaci siamo stati colleghi, ma anche amici. Mi ha fatto conoscere Panagulis. Per L'Europeo lavoravo soprattutto a Londra, ma viaggiavo ovunque. Fui anche arrestato in Irak per spionaggio».
E da allora ha scritto quasi venti romanzi. L'ultimo, Il respiro della laguna, uscirà il 29 novembre per Piemme.
«È un giallo: con un omicidio, il rapimento di un neonato, un capo dell'Anticrimine che indaga. La storia è basata sull'antica leggenda che la laguna di Venezia possa suggerire presagi attraverso le acque. Una balla, che divertiva molto due vecchi signori e adesso spero possa divertire tutti».
E sia lei che Pratt vi siete sempre divertiti molto, a inventare. Ma se adesso dovesse sinceramente definirlo, in poche parole, come uomo, che cosa direbbe?
«Era un uomo di fantasia straordinaria. Con un senso dell'umorismo profondissimo.
E un'altrettanto profonda cattiveria. La esercitava se aveva motivi di vendetta su qualcuno. Ha colpito quelli che non hanno voluto avere lo stesso amore che aveva lui per le storie. Quando li scopriva, li puniva. Senza nemmeno guardarli in faccia».
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