Il «poeta degli umili». Dalla filmografia di Gianni Amelio non spuntano eroi. Nemmeno nella quotidianità. Gente comune che lotta. Per Lamerica che ogni tanto si chiama Italia. Un lavoro che non c'è, a patto di non essere L'intrepido che li accetta tutti. Il terrorismo capace di Colpire al cuore anche in famiglia. E ora La tenerezza di un anziano del Duemila e dintorni, più affezionato ai confusi dirimpettai che ai propri congiunti, malati di menefreghismo. Personaggi comunque immersi intimamente in una geografia a cui risultano visceralmente legati.
E allora, se Milano fosse un film a quale genere apparterrebbe?
«Drammatico, direi. E non per offendere. Anzi. È una metropoli riflessiva. Negli anni '50 ha dato lavoro al resto d'Italia. Era l'epoca di Rocco e i suoi fratelli, dei treni dal Sud. Per questo ho voluto che L'intrepido Antonio Albanese, rimpiazzo stakanovista, guidasse i tram, facesse il facchino e mille altri mestieri proprio qui. Era una provocazione, ma non è stata capita. Correva il 2013. Forse troppo in anticipo sui tempi. Oggi sarebbe più apprezzata».
E Roma?
«È caratterizzata da una cialtroneria molto più vicina alla commedia che non invece al pensiero. All'attenzione dei problemi. Quando progettai il mio primo film milanese, Colpire al cuore, era il 1982. Dunque sono passati...».
Trentacinque anni.
«Ebbene, già allora pensavo che un docente universitario della Sapienza, nel tragitto di rientro a casa, avesse già dimenticato l'ultima idea che aveva avuto in aula. Mi sembrò che invece alla Cattolica tutto funzionasse meglio. E lo girai qui».
Come «Il ladro di bambini», se non per un inciso.
«Era solo la partenza, in verità. Non ho resistito al fascino di girare alla Centrale».
Cosa la intriga della stazione?
«È la più fotogenica d'Europa. Anche Pasolini in Teorema gli ha dedicato una scena importante. Io l'ho ripresa dall'alto. Alla rovescia. La Centrale che aveva accolto gli immigrati la si vedeva ora con il treno in direzione opposta. Verso sud. Quei bambini del film andavano chiusi da qualche parte, dopo le storie infelici dei loro genitori».
Oggi, però, è ancora il cuore pulsante dell'angoscia. Un quartiere critico.
«Vivo a Roma per necessità. È un libro aperto di bellezza, ma quella parte così unica al mondo è la sola visibile. Il resto è periferia veramente degradata. Inferni di terra. Molto peggio di Milano e Torino».
Che fa, parla male della Capitale?
«Dico solo che le amministrazioni vivono di rendita sul Colosseo. Come se giustificasse tutto il resto. La sporcizia, ad esempio».
Torniamo all'immigrazione.
«È il problema del nostro tempo. Spostamenti di massa come movimenti sismici di cui non ci rendiamo conto. Esodi massicci di cui ci sfuggono proporzioni e numeri. Se calcolassimo tutti i porti dove approdano e quante volte al mese sbarcano, scopriremmo che intere popolazioni stanno cambiando destinazione. Radici. Noi in realtà subiamo solo l'assalto di chi vuol venderci l'accendino».
E allora quale ricetta suggerisce?
«Noi cittadini non possiamo prenderci la responsabilità della soluzione».
Eppure dà un quadro fosco. Giovanna Mezzogiorno smaschera un arabo che dice bugie. Elio Germano se la prende con un vu'cumprà e lo aggredisce.
«Mi interessava raccontare la doppia reazione di Germano. La prima parte è quella di tutti, anche se non veniamo alle mani. Poi viene il pentimento. Va a cercare quel senegalese e gli si pianta di fronte. Alla sua altezza. E, senza dargli soldi, lo guarda come a dire Anch'io, privilegiato occidentale, ho i miei problemi, ma pensi di averne solo tu. Poi si vede... È un luogo comune dire che l'unica preoccupazione sia quella di guadagnarsi il pane».
Certo è la più importante.
«I problemi sono di varia natura. Ognuno ha i propri. Anche chi mostra un'apparente tranquillità dell'esistenza e il giorno dopo si butta dal balcone».
Che cosa ha tormentato di più Gianni Amelio?
«Io come uomo... Forse nessuna angoscia realmente grande, perché ho sempre compensato tutte le ansie più gravi con una grande fortuna».
E quale sarebbe?
«Da bambino ero posseduto dal cinema come l'indemoniata de L'esorcista. Quindi qualunque cosa, dal bullismo a scuola alla povertà in casa, perfino al sentirmi diverso dagli altri, mi veniva compensata dalle due ore che trascorrevo al Politeama».
E ha perfino scritto un libro.
«È un romanzo di formazione. Racconta come un bambino di 8-9 anni arriva ad averne venti e raggiunge Roma con il sogno di diventare un cantante».
Lei però è diventato un regista.
«Sì, ma ho raggiunto il mio traguardo. E questo è ciò che oggi manca ai giovani. Vivono in un mondo imbastardito che tarpa le loro ambizioni prima che nascano. Negli anni Sessanta questa fortuna esisteva davvero».
E' vero che la sua più grande gioia è di aver fatto quello che voleva?
«È stato il privilegio più grande. Non è scontato essere così soddisfatti del proprio lavoro. Pensare alle mille seccature di ogni giornata, fino al mestiere più infame che è la miniera. Quando ci si sveglia al mattino...»
A che ora si alza?
«Alle cinque. E sono felice perché faccio quello che ho sempre desiderato. Pur con tutti i problemi, perché ne ho molti anch'io. E devo guadagnarmi ogni passo che faccio. Però ogni passo che faccio va verso ciò che amo. E questo non ha prezzo».
Che cosa la entusiasma del suo lavoro?
«Entrare in una sala buia e vedere una propria inquadratura che passa sullo schermo, mentre il pubblico in silenzio la sta guardando è impagabile. Vale qualsiasi sacrificio. Anche cinque o dieci anni di lotta».
Parliamo ancora dell'amore.
«Ma c'è anche un altro sentimento legato all'amore che non riusciamo a sconfiggere».
E cioè...
«La paura».
Che cos'è la paura?
«Il timore di non essere all'altezza di qualcosa a cui teniamo molto».
Quindi non l'ignoto?
«Nessuno ha il terrore dei fantasmi. Sappiamo che non esistono. E nemmeno stiamo in ansia per ciò che non conosciamo. Ci preoccupa invece quello di cui abbiamo dimestichezza, perché valutiamo la nostra fragilità. E una delle sfide più rischiose è l'amore. Quando siamo troppo sicuri o insicuri».
Gianni Amelio di che cosa ha paura?
«Di niente se non di se stesso. Ho paura di me, non degli altri».
E ha vinto lei o l'angoscia?
«Ho superato la prova con il massimo dei voti. Dovrebbero inventarne di speciali per premiarmi».
Addirittura. Che cosa le è accaduto di terribile?
«Ero in un vicolo. Mi hanno strattonato contro il muro e mi hanno puntato un coltello alla gola. Sentivo già la vena che cominciava a gocciolare».
Che cosa l'ha salvata?
«Il sangue freddo. Non sapevo di averlo, ho scoperto di esserne ricchissimo».
È coraggioso?
«Non lo so, ma in quella storia del coltello sono uscito a testa alta. Nel momento di maggior tensione, ai miei aggressori ho detto una sola parola».
La ripeta.
«Perché... Ho chiesto perché mi aggredivano».
Che cosa le hanno risposto?
«Tu italiano, tu italiano. No greco. Allora tu no greco, tu italiano. Tu amico. E mi hanno abbracciato. Mi avevano scambiato per un greco. E mi avrebbero ammazzato».
Dove è successo?
«A Napoli».
Ne «La tenerezza» però ha invertito le parti. Elio Germano aggredisce un senegalese.
«Sì, ma il suo personaggio è costruito sulla fragilità. Quello sfogo è stato solo un attimo di follia».
Che cosa pensa della violenza?
«Ognuno ha il suo modo di attirarla. Come se uno se la andasse a cercare. Però si sopravvive anche alla tempesta più irruenta».
Se l'è mai andata a cercare?
«Se devo essere sincero, sì».
Quando?
«Ero ad Algeri per girare Il primo uomo ed ero incuriosito da alcuni luoghi».
Per esempio?
«La casbah. Volevo fare alcune riprese di notte e nessuno mi voleva accompagnare perché dicevano che ero matto».
Ha rinunciato?
«Ho finto di andare a dormire, poi mi sono alzato e ho fatto una scarpinata tremenda fino a quella zona malfamata. Potevo lasciarci le penne, ma non ce le ho lasciate».
La più audace, nel film, sembra essere la sposina sbadata.
«Si scopre forte in punto di morte. Ci sono donne che sono un po' più... Perfino nelle bugie. Che fanno parte dell'amore».
Che cos'è la bugia?
«È un aspetto scadente della menzogna. La differenza l'ho inventata io».
Allora, che cos'è la menzogna?
«È una falsità costruita ad arte che serve a chi la dice e a chi la riceve. Che grande parola. Menzogna. E qualche volta se ne ha pure bisogno. C'è perfino chi è un artista nel confezionarla».
E la bugia?
«È quella che si scopre subito. La più innocente, detta d'istinto. Non artefatta. E fa quasi intenerire».
Ci sono altre differenze?
«La menzogna fa parte del cinema. È una delle basi della costruzione di un film. Mentire bene. La bugia è da pusillanimi e bisognerebbe che gli adulti la lasciassero ai bambini».
Ha mai raccontato bugie?
«Chi non ne ha mai detta almeno una nella vita. Ma sempre piccole. Giustificabili. Perdonabili. Quello che mi rinfaccio sono certe menzogne, perché mi sono venute male».
A chi le ha dette?
«Al pubblico. Ho fatto tanti film e mi capita di rivederli. Ogni tanto mi accorgo di aver usato un po' troppo i mezzi che avevo a disposizione. Ho violentato il linguaggio del cinema per accattivarmi le simpatie dello spettatore. Ecco, dovevo mentire meglio».
Ha descritto un padre molto particolare. È anziano e si sente genitore di una donna che non è sua figlia, piuttosto che dei suoi due.
«Non è un fatto eccezionale. Anche se lo sembra».
Molti padri sono così...
«Molti figli sono così verso i loro padri. Se ne fregano dell'indifferenza di un genitore purché sia generoso. A livello economico, intendo dire».
Un aspetto tristissimo.
«Eppure molto diffuso».
Un padre resta pur sempre un padre.
«Guardi, io sono stato un pessimo figlio. Ho avuto un genitore ancora peggiore di me. Ma sono un ottimo papà».
Perché è stato un pessimo figlio?
«Tutti dovremmo riconoscere la fragilità dei nostri padri. E invece li crediamo invulnerabili, ma non è vero. Sono uomini. Colpire al cuore era imperniato su questo. Un figlio sospetta che il genitore sia un fiancheggiatore delle Brigate rosse. Lo denuncia alla polizia e lo fa arrestare».
E lei da quale parte stava?
«Stavo con il genitore, perché tutti siamo fragili. Ma con il mio, di padre, sono stato molto duro».
Che cosa le ha fatto?
«Mi ha incontrato quando io non avevo più bisogno di lui. A quel punto, io - istintivamente - non sono riuscito a vedere nella sua figura la persona di cui avevo avuto bisogno, ma della quale non avevo più bisogno».
Lo ha perdonato?
«Non ne ho avuto la forza. Sono un pessimo figlio».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.