Da Miseria a Gluck quei 40 classici sempre così attuali

Nel triplo cd «Unicamente» i capolavori del Molleggiato. Unico inedito il duetto con Paul Anka in «Diana». La Mori: «Nel suo prossimo disco griderà più forte»

Paolo Giordano

da Milano

E poi non ci sarebbe da aggiungere altro. Celentano pubblica Unicamente, una raccolta di 42 suoi vecchi brani (in vendita anche negli uffici postali) che, nel bene e magari anche nel male, sono la nostra colonna sonora, l’abbecedario dell’italianità vera e presunta raccontata da un artista che è inesorabilmente «altro», sempre più avanti o indietro e mai lì dove c’è la cronaca spicciola e volatile. Il tempo se ne va. Azzurro. Il tuo bacio è come un rock. Certo, «Adriano è un uomo libero che, se non condivide qualcosa, lo dice, senza mai farsi il problema che sia di destra o di sinistra» spiega Claudia Mori seduta a un tavolone qui nella sede del Clan in un palazzo che sa della Milano nata in via Gluck «quando c’era l’erba», e cresciuta coi valori, i sogni, i respiri che l’hanno resa un modello, comunque. Una carezza in un pugno. 24.000 baci. Soli. Dai tre ciddì, strepitosi anche perché i suoni sono quelli di allora, pochi ritocchi, pochi restauri, e basta ascoltare l’acustica di Una storia come questa o i fiati di Si è spento il sole per uscire subito dal tempo, insomma dai tre ciddì salta fuori il Celentano famoso urbi et orbi e sintetizzato tutto in una volta («Mai così bene» dice la Mori) eppure di una attualità sorprendente perché lascia di stucco e, questa volta sì, obbliga a ritornare coi piedi per terra: nelle sue canzoni ancor più che nei monologhi, Celentano è arrivato così tante volte prima degli altri che per forza è stato equivocato, gabellato, imprigionato nella solita diatriba che scandisce le opinioni. Di destra o di sinistra. C’è qualcosa che non va. E voi ballate. Una festa sui prati. «Mai stato conservatore o reazionario» conferma la Mori, mentre si ricorda Chi non lavora non fa l’amore, allora nel ’69 considerato un inno qualunquista e di destra mentre era «un avviso ai padroni perché il disagio che vivevano gli operai in famiglia prima o poi lo avrebbero vissuto anche loro». Frainteso o no, il brano non è stato iscritto nella scaletta di Unicamente perché «è già stato pubblicato troppe volte» e d’altronde era meglio riaccendere la luce su canzoni che la celentanite, quell’ipnosi collettiva imposta da capolavori come Azzurro o Il ragazzo della via Gluck ha inesorabilmente oscurato. Come Miseria nera: «Ho buone braccia d’adoperare/Son quattro le bocche che in casa/Mi chiedono da mangiare/La vita è bella per pochi e non per me». È un brano del ’68, quando tutti reclamavano le stesse cose ma non usavano le stesse parole, non le avvolgevano nella carta conservatrice della buona volontà (le braccia che vogliono lavorare), dei valori famigliari (le bocche da sfamare), del sano accostamento dei diritti da riconoscere ai doveri irrinunciabili ma allora cancellati. Era il periodo in cui la meglio gioventù aveva vent’anni, si era ritrovata coi capelli corti e le giacchette blu nel fango di Firenze dopo l’alluvione e ne era poi uscita spettinata, con gli eskimo e gli ideali spazzaviatutto.
Era il Mondo in Mi 7 che Celentano cantava proprio quell’anno, il 1966, quando non era poi così spontaneo dire «E se noi, tutti insieme/in un clan ci uniremo, cambierà questo mondo» (e complimenti alla squadra di Minoli che ha inserito questi versi negli spot de Gli angeli del fango). Soprattutto, non era facile farlo senza rimanere poi guccinianamente zavorrati oppure essere subito arruolati in qualche «coalition of the willing» che è comunque una pozione sterilizzante per qualsiasi artista. Non avendola (quasi) mai bevuta, Celentano è rimasto fuori dal calendario istituzionale del nostro pop, ha parlato lento o rock a piacere, è cresciuto con la sua meglio gioventù lasciandoci tutti, di volta in volta, a gridare allo scandalo compiaciuti di arrabbiarsi. Forse non accadrà stavolta con l’unico brano inedito di Unicamente, ossia Diana di Paul Anka che qui duetta in italiano con Celentano appoggiandosi a un testo attualizzato anche dalla penna di Mogol. Era, quella canzone, l’inno dell’innamoramento per una donna più grande: ora è il canto disilluso di due uomini che perdono la testa per una ragazzina e anche gli arrangiamenti portano in mente quelle commedie di Walter Matthau e Jack Lemmon dove nelle pieghe di una risata c’era sempre pedagogica malinconia, dolce conoscenza della vita, poesia.

Forse, visto che tanto in tv «ora non abbiamo molte chance e di tournée non se ne parla», il Celentano della meglio maturità è quello che cova nel nuovo disco ancora in incubatrice, nei brani che «affronteranno temi sociali forti ma non politici perché se Adriano vuol parlare di politica, lo farà con Rockpolitik 2». Forse, chissà, ma in fondo è unicamente Celentano purchessia.

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