Cultura e Spettacoli

Mister Giorgio Faletti, tu vuo’ fa’ l’americano

"Io sono dio" è in testa alle classifiche. Però il thriller è zeppo di frasi slang intraducibili. Megalomania o editor distratto? Sui siti rimbalzano i dubbi sulla strana lingua italoamericana utilizzata dall'autore

Non giriamo attorno al cespuglio. In fondo il giornale per cui lavoriamo ci dà dei bei grandi. E noi siamo adulti e senzienti abbastanza per porci qualche dubbio e non limitarci a mettere in pagina diamanti a poco prezzo o comportarci come falene davanti alla candela. E quindi parliamo di Faletti. Non avete capito un accidente?

Può succedere. La lingua non è fatta solo di parole e di forme sintattiche. È fatta di modi di dire, di forme idiomatiche. Quelle che avete letto sarebbero chiarissime ad un americano, per esempio. Ad un italiano risultano più semplici così: «Non meniamo il can per l’aia. In fondo il giornale per cui lavoriamo ci da dei bei bigliettoni. E noi siamo grandi e vaccinati abbastanza per porci qualche dubbio, invece di mettere in pagina “bigiotteria” o farci attirare da apparenze pericolose». E quindi parliamo di Faletti.
Ora che ci siamo resi intelleggibili, prima che qualcuno scrivesse una letterina al direttore, o meglio alla neuro, sarà bene spiegare dove abbiamo pescato tutte queste strane espressioni. Vengono dall’ultimo libro di Giorgio Faletti Io sono Dio (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 524, euro 20). E non sono le uniche.

Andando a spasso per il volume, un giallone molto americano e zeppo zeppo di reminiscenze cinematografiche, ci si imbatte in una infinità di espressioni che con gli idiotismi (non è una parolaccia) dell’italiano hanno poco a che fare.

Tant’è che su internet ha iniziato a rimbalzare, tra i traduttori e chi mastica l’inglese, qualche strano dubbio.

Se ne è scritto su Italians, il blog di Beppe Severgnini, e su qualche altro sito specialistico. I giornali, la critica paludata, però, si sono guardati bene dal prendere in esame la questione, hanno giocato sul piano delle solite recensioni. Belle o brutte che fossero. Se invece ci mettiamo a discutere di lingua - pur senza pretese filologiche - di Giorgio Faletti scrittore si finisce per avere un’impressione proprio strana. L’impressione di uno che abbia perso la trebisonda (ecco un idiotismo che farebbe faticare un traduttore) tra italiano e inglese. Appena ci si immerge nei dialoghi del romanzo ci si trova ad annaspare in una strana lingua. Ricorda le traduzioni mal fatte dei gialli a basso prezzo.

Tanto per dire: due detective, a pagina 136, hanno un dialogo serrato e anche abbastanza ben scritto, sino a che uno dei due dice all’altro: «Non girare attorno al cespuglio, Peter. Che succede?». Ma attorno al cespuglio ci gira il lettore italiano per il quale «don’t beat about the bush» non significa niente (è l’equivalente di «non menare il can per l’aia»). E dal passo in questione l’attacco alla comprensione e alla lingua diventa sempre più serrato, sino a culminare con «Te ne devo non una, ma mille» che deriva dall’americanissimo «I owe you one» e che in italiano si renderebbe con «Ti devo un favore grosso come una casa».

E, senza infierire, si potrebbe anche chiedersi cosa Faletti sperava che i lettori capissero dalla frase (pagg. 363): «Pensavo che una ventina di grandi vi avrebbero fatto comodo». I grandi della terra? Sì, grazie, avere degli adulti attorno a noi bambini piace? No, più banalmente, per i neri d’America i «grand» sono dei bei bigliettoni da mille dollari. Ecco come mai qualche traduttore, come l’interprete Eleonora Andretta, che è stata tra le prime a segnalare alcune di queste stranezze, si è posto una domanda: «Ma Faletti pensa in americano?».

Dare una risposta è difficile (Faletti è in vacanza, abbiamo chiesto al suo agente di contattarlo, ma per il momento non è reperibile). Quello che è certo è che il romanzo si inceppa in una serie di ircocervi linguistici in cui il mobile non è un oggetto d’arredo ma il «mobile» inteso come cellulare, in cui insano è «insane» (pazzo, folle) e via dicendo. Sia chiaro, non è affatto detto che ci sia da favoleggiare su misteriosi scrittori americani che abbiano scritto al posto di Faletti. È più probabile che a Faletti sia venuto in mente di applicare il metodo Stanislavskij alla letteratura. Io uccido, romanzo con una scrittura diversissima da Io sono Dio, ha faticato a farsi strada nella sua traduzione americana. Così Faletti nell’americanizzarsi e nello stare spesso negli Usa (che sono un bel mercato) forse ha esagerato un tantino. Un traduttore dall’americano di vaglia come Sebastiano Pezzani (tra gli altri ha dato voce italiana a Joe R. Lansdale e Mark Twain) non ha dubbi su quelle espressioni: «Sono modi di dire americani, sono dei calchi, non c’è dubbio. Il lettore comune manco se ne accorge, magari parla male l’italiano di suo... Incespica sull’espressione, non capisce e poi tira dritto... A chi come me conosce bene l’inglese, invece, scappa da ridere». Pezzani, però, non ha dubbi nemmeno su Giorgio Faletti che conosce personalmente: «Non credo abbia copiato o altro, si è fatto prendere la mano, è un’ingenuità, magari una cosa che lui considera artistica... Voleva essere americano dare il senso dell’America, e il risultato...».
Detto questo potrebbe venir voglia di tirar le orecchie all’editor italiano che ha lasciato passare delle espressioni così infelici. L’editor è «l’enciclopedico» Francesco Colombo, che Faletti alla fine del volume ringrazia così: «Mio impareggiabile editor, perché, per sua e per mia fortuna, ha un cervello in più e una Bentley in meno». Forse Colombo si è un po’ distratto perché sta cercando di farsi una Bentley tutta sua. Ma è più probabile che, arrivati al quarto bestseller e a milioni di copie, il povero Colombo non abbia più la forza di porre un freno all’autore, sia sulle derive a stelle e strisce, sia su frasi per le quali non dovrebbe aver senso accusare le lingue straniere. Ad esempio, parlando di un gatto: «Accettava con le sue semplici implicazioni feline le carezze sulla testa e sul collo».

È solo un non senso. A meno che qualcuno non confonda l’inglese «implication», che significa anche coinvolgimento emotivo, con implicazioni. Perché in questo caso la frase suonerebbe «Accettava con semplice coinvolgimento felino le carezze sulla testa e sul collo». Ma questo è un errore da traduttore automatico (scadente). Allora, visto che la discussione, almeno su internet, non si placherà tanto presto, noi ci limitiamo a ricordare una vecchia canzone che Faletti, essendo anche musicista, potrebbe canticchiare meglio di noi. È di Renato Carosone: «Tu vuo’ fa l’americano! ’mmericano! ’mmericano! Siente a me, chi t’ho fa fa?...

».

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