Economia

Mister Liolà tra taglie forti e vini pregiati

L’imprenditore controcorrente: non licenzia, produce in Italia, non teme la Cina

Non ha mai partecipato alle sfilate delle collezioni femminili pur avendo un marchio conosciuto come quello Liolà e diffuso in particolare tra le signore quarantenni, pur avendo da oltre 30 anni bilanci in attivo e migliori rispetto alla maggioranza delle case che sfilano. Ma Vittorio Giulini, gusti raffinati e legati a una forte tradizione culturale, preferisce la qualità della vita all'ansia quotidiana che affligge gli industriali. E così, mentre nel tessile e abbigliamento un po' tutti si lamentano della concorrenza cinese e dei conti che vanno male, lui riesce a mantenere un giro d'affari stabile, ricorre totalmente all'autofinanziamento, continua a produrre tutto in Italia, non licenzia, non ha nessun timore che i cinesi gli taglino le gambe, anzi, vende addirittura in Cina. Dice: «Sono dell'idea che sia meglio detenere una leadership di nicchia che essere uno dei tanti che si affannano attorno ai grandi numeri».
Quattro secoli di storia. Vittorio Giulini appartiene da almeno quattro secoli a una delle famiglie più vecchie ed illustri di Milano. L'immagine di un suo trisavolo, Ferdinando, compare tra i mille dipinti che formano la preziosa Quadreria della Ca' Granda. E il nonno, Giulio, un ricco signore che viveva di rendita, si sposa con Maria Crespi, altra famiglia illustre lombarda, quella dei Crespi di Ghemme, ramo industria elettrica e filatura tessile. Vittorio, insomma, ha alle spalle una solida tradizione. Classe 1940, imprenditore della quarta generazione, è il maggiore di tre fratelli: Claudio, che è fuori dall'azienda, e Fernanda che è invece socia nell'impresa ed è anche la responsabile del coordinamento stilistico. In particolare Fernanda, diploma di pianoforte al Conservatorio con Bruno Canino, è famosa per avere una delle collezioni più preziose al mondo di strumenti musicali antichi. Una cinquantina, tutti funzionanti, dai clavicembali alle arpe e ai pianoforti, conservati in una villa del Settecento, villa Medici Giulini di Briosco, in Brianza.
Bastoni & cavatappi. Ma sul fronte delle collezioni anche Vittorio Giulini non è da meno, anzi, ne ha più d'una. Una volta compra a Londra per puro caso un cavatappi in argento. Ma dal momento che quello del cavatappi normale è un hobby piuttosto diffuso, lui si cerca anche in questo campo una nicchia e si specializza nella raccolta di bastoni da passeggio con cavatappi interni. Ne ha ormai più di una cinquantina. Il più curioso? Il bastone da picnic: fornisce forchetta, coltello e cavatappi. In argento. È sua anche la bellissima collezione di dipinti su pietra, esposta qualche anno fa in forma anonima a Palazzo Reale dal titolo Pietra dipinta. Del resto Giulini sa mescolare in sé cultura artistica, cultura tecnica, cultura economica: studia infatti al liceo classico Parini, si laurea in chimica, fa una business school a Torino, l'ultimo corso dell'Ipsoa. Suo grande amico è stato Federico Zeri, ospite fisso a casa sua per circa 25 anni. Anzi, precisa, «Zeri è l'amico di cui vado più fiero». E per 10 anni, caso unico in Italia, ha ricoperto la carica di presidente degli industriali dell'abbigliamento, prima a Moda Industria e poi a Sistema Moda Italia.
Il marchio che non c’era. Giulini entra nel 1965 in azienda che in quegli anni non ha un marchio, non ha negozi, non ha confezioni; è solo un'azienda di filati e tessuti, un'impresa che appartiene alla filiera tessile di commodity. Ha 250 telai con altrettanti dipendenti e produce a Legnano un milione e mezzo di tessuto. Un tessuto solo e di colore nero. Anzi, è leader in questo settore sin dal dopoguerra in quanto quello è il tessuto utilizzato per fare il camice nero alle impiegate, alle insegnanti e alle studentesse. Un prodotto che regge sul mercato per una ventina d'anni e poi si riduce a zero nell'arco di appena tre anni, più o meno attorno al Sessantotto, con l'avvento della confezione di massa a basso prezzo. Quella è la prima rivoluzione che si abbatte come un terremoto sull'azienda dei Giulini che proprio nel 1968 decidono di produrre anche abbigliamento e creano il marchio Liolà. Una decisione che prende il padre di Vittorio, Leopoldo. E saranno poi proprio Vittorio e la sorella Fernanda a pilotare l'azienda attraverso quell'altra rivoluzione che ha sconvolto il mondo in questi ultimi quarant'anni. Spiega Vittorio: «È la prima volta che nel mondo industriale l'uomo spende i soldi per dimagrire quando per quasi duemila anni ha sempre lottato per non morire di fame. La fase dei bisogni reali è quindi superata dalla fase del piacere della vita ed è questa la fase che continua a crescere. Si tratta di una rivoluzione colossale che ha portato la società del benessere agli antipodi di quella che era prima».
In questo capovolgimento totale dei bisogni e degli interessi della gente Vittorio ha portato Liolà a essere leader nella sua nicchia di mercato, quello femminile: il coordinato di maglia, dal golf allo stampato. Una strategia basata su tre punti e avviata quando Vittorio si è reso conto che il telaio a maglia consente maggiori vantaggi rispetto a quello tradizionale. E quindi? Di conseguenza, per fare una collezione unica su quel mercato di nicchia ci vogliono molti telai ma per avere tanti telai ci vogliono molti soldi: almeno cento milioni di euro. E allora? Questo significa avere creato una barriera di ingresso molto alta per un mercato di nicchia, significa avere un prodotto difficilmente copiabile («Sei morto - dice - se invece lo è»), significa avere quindi le spalle al sicuro dalla concorrenza cinese, significa realizzare anche un prodotto ad altissima tecnologia e qualità che, chiarisce Giulini, «è al cento per cento made in Italy». Nessuna delocalizzazione ma stabilimenti tutti in Italia: tessitura a Dormelletto (Novara), stamperia a Legnano, confezione a Borgomanero, sempre Novara. In complesso, circa trecento dipendenti.
Il problema distribuzione. Il secondo punto della strategia è una conseguenza del primo. Una volta realizzato un prodotto unico per un mercato di nicchia, bisogna poi anche venderlo. Ecco allora il problema della distribuzione. Ma anche in questo campo le scelte di Giulini sono innovative rispetto alla concorrenza. Invece di comprare o affittare negozi nelle zone di moda, lui li apre nei quartieri bene, nei quartieri dove abitano i suoi clienti. Liolà ha infatti tre tipi di consumatori: per il 30% sono donne della buona borghesia che hanno superato la quarantina, con un gusto classico e molto personale; per un altro 30% sono donne fisicamente robuste, quelle che hanno bisogno delle taglie forti, e la maglia ha una straordinaria vestibilità; per il 40% sono donne di qualunque livello sociale e che vogliono vestiti comodi e pratici, tali da essere messi in una sacca a mano.
Negozi nei palazzi d’epoca. Questi negozi (oggi 190 in Italia e all'estero, di cui 43 di proprietà) hanno anche un'altra caratteristica oltre a quella di non essere ubicate nelle zone di moda. Giulini privilegia immobili d'epoca, immobili legati alla storia delle città, che poi vengono ristrutturati mantenendo quel legame con le matrici culturali della zona. Dice: «Ci teniamo molto. Siamo infatti un'impresa familiare a vocazione internazionale ma con una forte tradizione culturale che cerchiamo di trasmettere in tutte le nostre attività, industriali e agricole».

Già, perché oltre a Liolà la famiglia Giulini è proprietaria anche di due tenute: La Marchesa, splendida, tra Gavi e Novi Ligure, in cui produce 400 mila bottiglie all'anno di Gavi e Monferrato, e quella di Pietra Porzia, a Frascati, da cui escono l'olio extravergine di oliva e i vini Frascati superiore e Castelli romani.
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