Il mistero dell’aereo sparito Un film horror senza trama

«Torre, ci sentite? Qui volo Af477, in rotta da Rio de Janeiro a Parigi. Spiacenti, abbiamo dovuto modificare il piano di volo. Stiamo appena uscendo dalla quarta dimensione. Ci siamo infilati senza preavviso in una curva spazio-temporale, una specie di mondo parallelo. Ma adesso, eccoci di nuovo sulla strada giusta. Passiamo al viva voce. Il radar non è più cieco. Dateci le coordinate...». Come vorremmo che i media riferissero questa conversazione tra la cabina di comando dell'Airbus A-330 e i controllori di volo, in qualche aeroporto a est dell'arcipelago Fernando de Norohna, sulla soglia dell'oceano. Ma gli spazi alternativi e le passerelle tra gli universi affiancati esistono solo nel mestiere degli autori di fiction. Qui, per ora, c'è solo la tragica «agnizione al contrario», il riconoscimento fasullo che riporta tutto la storia all'esasperante punto zero. Quei detriti, quelle macchie oleose troppo sfilacciate per fuoriuscire dai serbatoio di un velivolo, seppure gigantesco, sarebbero invece le tracce di un naufragio che nulla ha a che vedere con l'Airbus sparito da questo mondo. E le domande tormentose si moltiplicano. I problemi non riguardano più soltanto il «perché», e il «come» quel volo si sia spezzato. L'enigma più bruciante riguarda il funereo capolinea, il «dove», il punto della carta geografica in cui un gioiello di tecnica invulnerabile e 228 vite umane - ricordi, emozioni, passioni, aspettative - sono passati dallo stato solido a quello di polvere. Non sta a noi masticare le ipotesi. Ma possiamo riflettere su un fatto: che il mistero ci circonda sempre, come un liquido amniotico. Non ci avevano garantito che gli occhiuti satelliti, stakanovisti dell'orbita perenne e dello sguardo insonne, registravano anche lo schiudersi di un fiore nel deserto del Gobi? Che potevano leggere le righe di quello stesso giornale che stavamo sfogliando sulla poltrona, nel nostro salotto? Che tutte le chiacchierate tra di noi, anche i bisbigli intimi, via fisso o cellulare, si incidevano in tabulati arcani, con la tessa fissità marmorea con cui gli scalpellini egizi martellavano nel calcare le glorie dei faraoni? Come può accadere che un gigante dei cieli, che sprizza segnali da tutti i pori, si annulla di colpo in una tabula rasa? Gli antichi avevano le idee chiare, su un punto: noi siamo (relativamente) al sicuro, solo tra le pareti domestiche. Al massimo, possiamo spingerci fino alle mura della città. All'esterno, c'è la selva, la barbarie, il terrore. Nell'Atene classica la «naja», la preparazione bellica dei ragazzi coscritti, consisteva in un'escursione forzata oltre la culla delle mura, nel caos pericoloso dell'esterno. Bisognava vivere nascosti, nella paura. Cacciare di notte. Chi tornava indietro sano e salvo, aveva visto la morte in faccia, era degno di fare il soldato. Non a caso, veniva sacralizzata la porta, il simbolo di un passaggio dal noto e dal rassicurante, all'ignoto e al tenebroso. I latini mettevano a custodia della porta, ianua, un dio, Giano: non si sa mai. E per sentirsi più protetti, immaginavano quel santo patrono munito di due volti: uno in avanti, per affrontare le incognite, e uno all'indietro, per ancorarsi al giù vissuto, al caro, famigliare terreno dell'esperienza. Mettere un piede fuori casa (figurarsi in un oceano) era come immergersi in un labirinto. Lo sapeva bene Teseo, eroe tutto d'un pezzo, ardimentoso, ma non stupido. Quando si trattò, per lui, di addentrarsi nei meandri dell'intrico cretese, cosparso delle ossa dei predecessori ed echeggiante dei lugubri muggiti del Minotauro, si affidò alle cure di un'eccezionale «donna-radar»: Arianna, la sua innamorata, pronta a reggere il capo del filo che salvò la ghirba all'avventuriero. Oggi, impalpabili fili elettronici collegano gli uomini in volo alla terra: ma, a quanto pare, sono meno affidabili del manufatto di lana che regalò a Teseo il trionfo, e ai poeti l'opportunità di vantarne le gesta. Qualcuno evase in volo da quello stesso labirinto, architettando ali di cera e di piume: troppo esaltato dalla sua tecnologia, Dèdalo sottovalutò i sistemi di sicurezza, e nel tragico balzo in cielo perse il figlio, Icaro, a cui poté consacrare solo un malinconico sepolcro vuoto. Fetonte, l'erede del dio Sole, si mise alla guida di un Airbus mitico che aveva sul ruolino di marcia millenni e millenni di volo: era l'astronave radiosa del padre, che dal primo giorno del mondo sorgeva a est nell'aurora, per tramontare a ovest nella notte. Un velivolo ultrasicuro. Eppure precipitò in una palla di fuoco. Il primo disastro aereo degli annali, anch'esso inesplicabile, vista l'affidabilità del mezzo. Allora, gli esperti imputarono la catastrofe all'errore umano, quel ragazzo impreparato e fragile alle prese con una macchina troppo potente. Ma andò davvero così? Anche i casi di Ulisse ci possono insegnare qualcosa. Ce la fece con le Sirene, assassine acquattate tra scogli, perché inventò per i rematori della sua ciurma il primo silenzio-radio della storia, tappandone le orecchie con cera sciolta: altrimenti si sarebbero lasciati intrappolare dal canto delle maliarde, sfracellandosi sulle rocce. Ma quando l'itacese sfidò l'Atlantico, lasciandosi alle spalle le colonne di Gibilterra dove Ercole aveva giudiziosamente posto - per dirla con Dante - i suoi «riguardi» (un segnale di «no fly zone», opportuno per la pericolosità dei flutti) si perse anche lui nell'immenso, come l'apparecchio Air France. Tornando all'atroce cronaca, spicca la sproporzione tra il nostro illuderci che la tecnologia garantisca ogni sapere, il controllo integrale della ragione sulla realtà, e le zampate che il mistero ancora vibra indisturbato. Sappiamo molto. Ma la zona buia è preponderante.

Non c'è internet che tenga. Non ci resta che raccoglierci. Forse pregare. Far maturare, a fondo, la coscienza di un limite. Che non spiega e non allevia la tragedia: le dà la dignità umana del silenzio, dell'accettazione.

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