Il mistero della mamma che ha diviso l’Italia

Colpevole. Sedici anni. Sentenza definitiva. La notizia arriva poco prima delle 21: Annamaria Franzoni ha ucciso suo figlio Samuele. Deve andare in carcere. Subito.
E adesso tutti diranno: è finita, basta, non se ne parli più. Adesso tutti diranno: chiudiamo i microfoni, giù le telecamere, abbassiamo le luci sul delitto più ripreso e raccontato che si ricordi. Eppure adesso tutti sanno che non sarà così. E sanno che un pezzo di questa storia resterà per sempre dentro di noi, negli archivi dell’anima ancora più che in quelli dei giornali. E attorno a quelle foto di Annamaria, sempre più sbiadite e lontane, continueranno a girare le tante domande di questa vicenda, che nessuna Cassazione potrà fugare completamente: è davvero lei l’assassina? E con cosa l’ha colpito? E perché? Era lucida? È schizofrenica? Ha cancellato tutte le prove, comprese quelle del rimorso? Fingeva? Sempre? Come ha fatto? E perché suo marito le ha sempre creduto?
Ci siamo interrogati per anni, davanti alle aule dei tribunali e davanti agli schermi tv. Plastici, zoccoli, pigiami, riprese filmate, schizzi di sangue con parabole incorporate. Opinionisti diventati celebri discettando su Samuele. Opinionisti diventati avvocati di fiducia discettando su Samuele. Investigatori privati, telefonate registrate. Abbiamo visto di tutto. Persino il papà del piccolo ucciso che recita in un filmato semi-amatoriale nella parte dell'assassino del figlio. Persino un prete che diventa Perry Mason (ma con ambizioni di Richelieu), copertine di settimanali, libri di memorie, veleni à gogo. Persino l’annuncio di un fiocco azzurro al Maurizio Costanzo Show: forse la prima volta che un'imputata per l’omicidio di un figlio annuncia la nascita di un altro figlio in diretta tv.
Ci siamo interrogati per anni, eppure non siamo mai riusciti a dare una risposta che sia davvero definitiva come la sentenza della Cassazione. Non siamo mai riusciti a spiegare davvero a noi stessi chi è davvero questa donna piccola e fragile, così evidentemente banale e un po’ antipatica, umile e altera allo stesso tempo, semplice e complicata. Una donna con la messa in piega sempre a posto. Ricordate? Era a posto anche quella tragica mattina in cui Samuele morì: nemmeno un capello fuori posto. Come se lei potesse passare in mezzo a un mattatoio senza macchiare la sua permanente nemmeno con una goccia di sangue. Troppo normale per essere assassina. O forse troppo assassina per essere normale.
Chi lo sa. La verità è che ci siamo interrogati per anni e abbiamo tirato in ballo tutto, dalle inesistenti parentele con Prodi ai pentiti della Uno bianca, dietrologie da baita e spy story al sapor di latte e grappa genepy, per spiegare quello che in realtà non abbiamo mai saputo spiegare. Perché Annamaria, appena uscita dalla caserma dei carabinieri, subito dopo il delitto, mostrò il dito medio ai giornalisti? Perché il giorno del funerale si è abbandonata fra le braccia di Ada Satragni, cui poi dedicò pensieri velenosi? Perché concluse la sua prima intervista Tv, due giorni prima dell’arresto, con quella voce glaciale che interruppe le lacrime: «Ho pianto troppo?». E il malore di quella notte, quando chiamò la guardia medica, era una coincidenza o un avvertimento? E la telefonata al 118 di quella mattina era di una madre che non capiva quello che era successo o che cercava di non farlo capire?
Ho conosciuto la Franzoni una sera d'ottobre a Ripoli Santa Cristina, nella stessa casa dove ha aspettato la condanna. Siamo stati ore e ore a chiacchierare, nel tinello con la stufa, Stefano e nonno Mario a sostenerla, i bambini Gioele e Davide che saltavano su e giù per la scala di legno, quasi delimitando con il loro gioioso rumore i confini della tragedia. Sparivano e poi ricomparivano all’improvviso: «Tutto bene mamma?». Tutto bene. Adesso prepariamo i tortellini. Ma sì, è un attimo: finiamo di parlare del vostro fratellino ammazzato con 14 colpi in testa e poi apparecchiamo la tavola. Il pranzo è servito.
E l’accostamento non appariva nemmeno blasfemo, lì. Immensa tragedia e spicciola quotidianità si intrecciavano naturalmente. Tutto sembrava normale attorno al tavolaccio di quella casa d’altri e spoglia. Non c'era niente di stridente. Quando ho conosciuto Annamaria avevo già mandato in onda mille volte la sua voce, le sue lacrime, le sue smorfie. E come tutti gli italiani le avevo indagate, trovandole quasi sempre fastidiose, insincere, a volte irritanti. Com’erano diverse, invece, dal vivo. Lo stesso pianto che suonava falso in tv, all’improvviso mi commuoveva. La stessa invocazione che entrando dentro un microfono diventava un sibilo sconveniente, lì, sotto quel soffitto basso, rimbalzando tra una modesta credenza e un fornelletto a gas, mi faceva venire voglia di abbracciarla. «Nessuno pensa che io sono solo una mamma che ha perso un figlio», singhiozzava. Nessuno pensa. Solo una mamma. Che ha perso un figlio. E la voce, per un attimo si strozzava in gola pure a me.
Ricordo che tornai a casa, quella sera, continuando a interrogarmi (interrogativi, ancora interrogativi) su quale fosse il mistero di questa donna, se avesse un fascino particolare, una capacità di convincere, o soltanto un carisma dettato dalla disperata sincerità. E mi chiedevo perché quelle sensazioni che trasmetteva di persona fossero l’esatto opposto di quelle che riusciva a trasmettere in tv. E allora mi resi conto che, in realtà, in Italia c’erano due Annamarie: quella del tinello e quella della Tv, una antipatica e una no, una convincente e una irritante, una normale e una stridente. E nella distanza esistente tra queste due Annamarie si nasconde buona parte del mistero insondabile di questo caso e dei dubbi che ci lascia. Perché ancora adesso non sappiamo se quella che abbiamo processato è la vera Annamaria o il suo clone tv. Se è la vera assassina o l'immagine distorta che il tubo catodico ne dà.
Non so se Annamaria sia davvero l’assassina, come dice definitivamente la Cassazione, o se è innocente, come continua a ripetere lei. Le sentenze si rispettano, ma se l’accusa doveva dimostrare la colpevolezza «oltre ogni ragionevole dubbio», ebbene, non c’è riuscita. In secondo grado la requisitoria si è chiusa con una patetica richiesta di confessione. Fra le prove decisive un lapsus in una conversazione telefonica e un fuori onda televisivo di pochi secondi: roba che se vogliono, allo stesso modo, dimostrano che il sottoscritto è il responsabile del naufragio del Titanic. Possibile che in sei anni non siano riusciti a raccogliere altro?
E comunque resta la sensazione che a questa sentenza si arrivi più per impressione che per certezze, più per sensazioni che per prove. È l’effetto Tv, l’effetto mediatico del caso che ha diviso l’Italia: tutti in fondo pensano di conoscerlo, se ne sono fatti un'idea, fin nei minimi particolari, fino a studiare la chiazza di sangue sull’abat-jour. L’opinione pubblica ne discute, il parere di Crepet conta più dell’atto processuale. E così alla fine ci resta una sentenza che contiene in sé un dilemma: è basata sui fatti o sulle apparizioni (più o meno riuscite) in Tv?
Poiché sono stato il primo a mandare in onda un’intervista a Annamaria, assumo la mia parte di responsabilità. Non so perché lei abbia accettato di trasformare il suo caso in un palcoscenico dei media. So che questo l’ha danneggiata molto. E so perché, dall’altra parte, invece, questo processo ha continuato ad appassionare, interessare, spaccare, far discutere, mandando alle stelle l’auditel, lo share, le copie stampate e quelle vendute. Il motivo è il più semplice e insieme complicato che ci sia, proprio come la Franzoni, il più normale e il più profondo. Il motivo è che le domande che ruotano e continueranno a ruotare attorno a questo caso non riguardano davvero il dramma di Annamaria. Piuttosto, riguardano il dramma nostro. Perché quando ci chiediamo chi è lei, in realtà ci chiediamo chi siamo noi. Prima ancora di sapere cos’è successo in quella casa, vogliamo sapere che cosa può succedere nelle nostre, prim’ancora di sapere cos’è passato nella sua mente siamo angosciati dallo scoprire quello che potrebbe passare nelle nostre. Trovarsi di fronte una mamma assassina significa trovarsi di fronte al lato oscuro di noi stessi, vuol dire togliere i limiti all'orrore. E pensare che quell’orrore può anche capitarti dentro, puoi trovartelo in casa, persino in un tinello un po’ demodé, fianco a fianco con una vita normale, quasi banale, vuol dire che nessuna vita, per quanto ordinaria, è al riparo dalla tragedia.

Per questo motivo non possiamo dire che è finita, per questo motivo non ci libereremo mai più da questo caso e dal volto di Annamaria. La verità che esce dalle aule dei tribunali, in fondo, è definitiva per tutti, tranne che per la nostra angoscia. E ognuno di noi ha paura che il suo 30 gennaio 2002, in realtà, sia domani.
Mario Giordano

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