Controcultura

Quel mito guerriero che è il collante dell'identità russa

Avanzata, resistenza, fuoco di sbarramento, saturazione, bombardamento, incursione, assedio. Non sono solo parole. Sono anche il cemento dell'identità Russa.

Quel mito guerriero che è il collante dell'identità russa

Avanzata, resistenza, fuoco di sbarramento, saturazione, bombardamento, incursione, assedio. Non sono solo parole. Sono anche il cemento dell'identità, soprattutto per quelle nazioni, come la Russia, prima e dopo, e l'Urss nel mezzo, che mancano di confini naturali e abbondano di grandi pianure dove ha potuto imperversare, per secoli, l'orda a cavallo e, a seguire, il carrarmato. Come spiega Chris McNab ne Il grande orso in guerra. L'esercito russo e sovietico dal 1917 a oggi (Leg) l'armata, la forza militare, sono stati uno dei pilastri della società sviluppatasi attorno all'impero degli Zar. Nessun leader a Mosca è mai riuscito a staccarsi da quell'immaginario. Anzi, in molti hanno cavalcato l'orso. Anche se è una belva che non ha sbranato solo i nemici di Mosca ma, dall'interno, anche la società russa.

I russi e in senso più esteso i sovietici (tra cui bisogna contare anche ucraini e bielorussi) hanno scritto pagine eroiche, sia chiaro, soprattutto quando gli aggrediti erano loro. Pagine che sono però state trasformate in mito ad uso dei vari regimi che si sono succeduti. Per rendersene conto è utile la lettura del diario di guerra di Vera Inber (1890-1972), appena pubblicato da Guerini e Associati con la bella introduzione, e traduzione, di Francesca Gori: Quasi tre anni. Leningrado. Cronaca di una città sotto assedio (pagg. 232, euro 17,50). Il «cerchio di ghiaccio», per usare la definizione della Inber (che con questo libro vinse il premio Stalin nel 1946), stretto dalle truppe tedesche attorno alla città, durò dal settembre 1941 al gennaio 1944. Costò la vita a più di un milione di persone. La scrittrice ne fa una descrizione vivida e agghiacciante in cui non mancano i dettagli di quella che fu una prova di resistenza terribile. E di conseguenza epica.

La Inber era convintamente stalinista, nonostante la sua parentela con Lev Trockij. Eppure parti del diario vennero espunte perché mettevano in discussione, anche in minima parte, la visione eroica e ufficiale sulla resistenza della città. Poteva essere considerata ribellione al regime anche solo sostenere che un abitante di Leningrado che ruba dei bulbi di tulipani per mangiarli non andrebbe arrestato (infatti, passaggio espunto). I diari di altri assediati, che non ebbero questa estrema accortezza, vennero fatti sparire, soprattutto quando criticavano la strategia staliniana, ad inizio guerra davvero disastrosa.

Quella retorica ed estetica della resistenza è finita direttamente nel discorso di Putin del 9 maggio, a partire dal continuo uso del termine «compagni» (seppur associato alla Santa Madre Russia), e arrivando poi al richiamo di molti miti nati nella Seconda guerra mondiale. Come ad esempio la cecchina Ljudmila Pavlichenko (1916-1974), famosa per le centinaia di centri attribuitele. Come potete leggere nella sua autobiografia, pubblicata in italiano con il titolo La cecchina dell'Armata Rossa (Odoya, pagg. 316, euro 22), a Eleanor Roosevelt che le chiedeva «Quanti uomini ha ucciso?», rispose: «Nessun uomo, solo nazisti. 309». Una risposta che disumanizzava, per poter continuare a combattere, il nemico invasore. E che pagò con tremendi incubi per tutta la vita.

Ma questo nelle parate non si dice.

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