Cinema

Quel mito pop casalingo che ha cambiato la tv. Fra lustrini e rimpianti

Nelle sale, fino al 12 luglio, la biografia di Raffaella Carrà. Il film di Daniele Luchetti ha un tonio agiografico

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Ammiratori, fan, devoti e vedovi di Nostra Signora della Tv: ci siamo. Da domani e fino al 12 nei cinema ritorna, più scatenato e travolgente che mai, il vostro idolo. Tutto grazie a Raffa: il colossale docu-film firmato Daniele Luchetti (e prodotto da Disney+) che condensa millecinquecento contributi filmati in tre ore di rutilante celebrazione della vita, della leggenda (e dell'agiografia) dell'irripetibile Carrà nazionale. O non, piuttosto, di Raffaella Pelloni? Già: perché tutto, in questa faraonica full immersion nel mito Carrà, ruota attorno alla suddetta, insospettabile dicotomia.

Da una parte la volitiva ragazzina di Bellaria che, abbandonata dal padre, proietta il proprio riscatto sui sogni in technicolor visti al cinema, ma sempre col pratico disincanto dell'azdora romagnola. Dall'altra la rampantissima aspirante che si proverà prima come ballerina («Ma all'accademia non sostenne l'esame finale», rivela Salvo Guercio, autore di fiducia), poi come attrice («Ma non funzionavo perché avevo viso da bambina e corpo da donna», confessa lei stessa), infine come platinata superstar internazionale il cui inflessibile perfezionismo cela fragilità insospettabili, dovute soprattutto alla solitudine sentimentale.

«Se lei non fosse la Carrà, chi vorrebbe essere?», le chiede Enzo Biagi. E lei, non a caso: «La Pelloni». «Non sente la mancanza di un figlio?». «All'inizio lavoravo troppo per poterlo avere. Ora - considera, con disarmante malinconia- è troppo tardi». Satura di canzoni, gonfia di memoria e prodiga di lacrime, quest'orgia pop di tutto quanto «fa Carrà», dall'ipertrofico kitch dei proverbiali costumi di Luca Sabatelli al ruspante ammiccamento di A far l'amore comincia tu (ma saggiamente si glissa sul fatto che, remixata da Bob Sinclair, ne La grande bellezza questa canzone era simbolo di trash e becerume), Raffa rende naturalmente conto di tutti i passaggi chiave della leggenda Carrà. I trentadue provini superati per recitare ne Il colonnello Von Ryan con Frank Sinatra che lei credeva «un re potente, e che invece è delizioso e gentile»; l'ombelico tagliato come un tortellino e il Tuca tuca sdoganato da Alberto Sordi a Canzonissima; il delirante successo spagnolo e gli epocali Pronto Raffaella? e Carramba che sorpresa!, trionfi assurti a fenomeni di costume.

Ma il documentario di Luchetti (con testimonianze, fra gli altri, di Marco Bellocchio, Renzo Arbore, Tiziano Ferro, Fiorello; più un passaggio debitamente muto di Sergio Japino, l'ultimo compagno, che mai ha concesso un'intervista) interessa soprattutto quando illumina l'umanità del personaggio. La ferita mai risanata dell'abbandono del padre, che riemergerà nel rapporto con Gianni Boncompagni («In lui cercava qualcuno che le desse sicurezza») ma che lei non vorrà più guarire, rifiutandosi di accorrere al letto di morte del padre vero: «Gli pagherò le cure, ma non voglio più vederlo». Il bisogno di amore, di cui si sentiva in perenne debito: «Aveva bisogno di piacere a tutti», ricorda il flirt giovanile Gino Stacchini, centrocampista della Juve; «Aveva il terrore di restare sola», rivela il ballerino Enzo Paolo Turchi; «I ricongiungimenti che lei favoriva con Carramba - analizza l'autore Giovanni Benincasa - sublimavano, in fondo, quello che lei stessa non aveva saputo compiere col padre».

Naturalmente, come tutte le agiografie, Raffa pecca di compiacimento, pur di non incrinare il culto laico della protagonista. Così paga pegno all'inevitabile, e stucchevole, associazione Carrà-comunità gay, con testimonianze dalla retorica posticcia di personaggi poco pertinenti. E glissa sul fatto che la sua popolarità internazionale esplose nei Paesi di lingua spagnola; ai margini, cioè, del vero showbusiness musicale, senza lasciare tracce là dove questo faceva realmente scuola: in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ma bilancia tutto, ed emerge prepotente, il continuo, intelligente bisogno di rimettersi in gioco della grande professionista: dalla rottura del contratto triennale ad Hollywood, procuratogli da Sinatra («Non volevo essere la ragazza del capo»), alla partenza per la Spagna proprio quand'era al top della popolarità in Italia («Ho bisogno di mettermi sempre alla prova»), all'abbandono di Pronto Raffaella? quando il successo tracimante e incontrollato della Carrà rischiava di travolgere anche la Pelloni. «La gente rovesciava su di me i propri dolori, sperando che io li guarissi - commenta la sua voce, su un primo piano che rivela una furtiva (e sincera) lacrima) -. Ma io somatizzavo tutto, invece.

E mi sentivo male al posto loro».

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