Moda e stile

«Credo che si debba sempre ricercare un equilibrio tra l’approccio cerebrale all’abito - cioè il risultato di un processo creativo ragionato e pianificato - e l’approccio emozionale che fa dell’abito un’intuizione di pura fantasia. L’abito è un mezzo, uno strumento, attraverso il quale si compie il contatto fra vita interiore e vita reale». In queste parole si condensa l’unicità di Gianfranco Ferrè, lo stilista che non veniva dalla sartoria, né dall’industria, ma dall’architettura («laureato al Politecnico di Milano nel ’69 senza cedere all’eskimo e alla barba guerrigliera», diceva fieramente) e per questo sapeva far vivere gli abiti trasformando l’eleganza fastosa e a volte opulenta, i tessuti preziosi e le forme mirabolanti in raffinata semplicità. Il disegno per lui era tutto, «necessità e passione... perché da stilista e architetto concepisco la moda come design». I vestiti per Ferrè erano un progetto, occupavano lo spazio. Non a caso Quirino Conti - altro architetto prestato al mondo della moda e del teatro - ha detto di lui: «era un Borromini rispetto ai tanti Bernini. Mentre imperava l’infiocchettamento lui erigeva strutture di tessuto».
Per dimostrarlo martedì alla Fondazione Ferrè viene presentato Disegni (Skirà, euro 60), sontuosa raccolta di bozzetti rapidi e perlopiù a matita - schematici ed essenziali ma allo stesso tempo attenti al dettaglio - che raccontano in 375 schizzi la parabola creativa di Ferrè. Pochi tratti, alcuni colorati altri in bianco e nero (amante dei colori forti e cangianti, sapeva trattare come pochi il bianco e nero e i toni grigi dell’inverno milanese che era il suo humus naturale), dipingono scarne linee che sono già una figura.
Rêverie è un’altra parola centrale nel mondo di Ferrè. D’accordo, abiti come progetti. Ma con l’anima; con la rêverie, appunto, «quel sentimento tra sonno e veglia, quel rincorrersi di sensazioni da cui nasce l’ispirazione». Lui è lo stilista trasversale per eccellenza; attenzione, non lo stilista per tutti, ma quello che elabora uno stile sfruttando le sue passioni letterarie, pittoriche, cinematografiche. «Il mio interesse per le arti figurative viene prima del mio lavoro», amava dire. Così nei disegni - e naturalmente nei modelli - s’intersecano influenze eterogenee e contrastanti come le figure di Giacometti e Modigliani, il cubismo, la pop art di Warhol, i disegni di Utamaro (l’artista giapponese che si dedicò alla bellezza femminile attraverso l’ukiyo-e, la rappresentazione «del fluttuare del mondo dei sensi») all’opera «ribelle» del veneziano Vittorio Zecchin. E i riferimenti potrebbero continuare a lungo passando dalla purezza di forme di architetti-designer come il tedesco Miers Van Der Rohe fino all’infatuazione per le lontane culture dell’India e della Cina.
In India Ferrè fu affascinato dalla semplicità opulenta, o «l’elementarità sfarzosa» cui accennavamo prima come tratto distintivo delle sue collezioni. «Mi hanno conquistato le donne indiane - diceva - le mille sfumature della pelle, i mille colori dei sari, i mille modi di drappeggiarli, ogni piega un suo significato. Il valore simbolico dei monili, i segni di identificazione con la propria casta: una dignità assoluta nei sorrisi, negli sguardi, nei gesti. Una lezione di vita e di stile senza cui il mio percorso sarebbe stato profondamente diverso». E poi la Cina nel ’73, in piena Rivoluzione Culturale, un mondo duro e crudo dove la fatica di vivere annulla ogni velleità estetica. Ma Ferrè trae la giusta lezione anche da qui. «Laggiù ho ricalibrato il principio del lusso non negandolo, ma eliminando il superfluo, l’orpello, la ridondanza».
Forse per questo ha sempre cercato di schivare i falsi rituali mondani che da sempre prendono d’assedio il mondo della moda; ha continuato a lavorare (fino al 17 giugno 2007, quando una emorragia cerebrale l’ha portato via) «per la donna intelligente, che sa scegliere l’abito e lo vive». Dove lui era assente, lo sostituiva la fedele assistente Rita Airaghi, oggi direttore della Fondazione Gianfranco Ferrè, 600 metri quadri milanesi nel complesso «Tortona 37» dove, accanto a disegni, libri, collezioni di riviste ci sono pezzi da lui creati, come il tavolo in lamiera di ferro che stava nel suo ufficio e oggetti d’arte a lui cari come le sedie di Tom Dixon, gli «uccelli» di Morizeau e Tita, il cavalletto da pittore che l’ha seguito fin dal suo primo studio in via Conservatorio.
Un libro e un luogo che viaggiano tra passato e futuro, proprio come Ferrè, che li ha sempre vissuti senza distinzioni temporali dicendo: «Creare significa guardare avanti.

Gli abiti che disegno devono avere un significato nel presente ma ancor più devono essere risposte ad esigenze e desideri futuri. Rifiuto però l’atteggiamento che vuole la moda priva di radici. Il passato dell’eleganza va amato e studiato».

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