Che cosa penserebbe anche il più anti-berlusconiano di voi se qualcuno dicesse che l’Italia attuale è come il Terzo Reich, il premier come Hitler, Bondi come Goebbels e magari Scapagnini come Mengele? Penserebbe che questo qualcuno è leggermente fuori di testa. Ieri Antonio Di Pietro ha detto proprio così, ha detto che «quello che sta avvenendo nel nostro Paese, ad opera dell’attuale governo, sembra ricalcare le orme del partito nazionalsocialista tedesco degli anni Trenta», e noi ci guardiamo bene dal dire che Di Pietro è leggermente fuori di testa.
Però visto che lui ha la libertà di fare affermazioni del genere, avremo noi quella di sottolineare l’enormità di certe sparate senza essere querelati (Di Pietro ha la querela facile) e poi giudicati dai suoi ex colleghi? Avremo la libertà di scrivere qualcosa su quella che sembra una pericolosa deriva dell’ex eroe di Mani Pulite? (Anche noi diciamo «sembra»; lui dice che l’Italia «sembra» la Germania nazista; noi diciamo che lui «sembra» un po’ sopra le righe).
Sono anni che il dibattito politico in Italia procede a insulti: da tutte e due le parti, va detto. E va bene. Anzi, va male, però è così: ci si scanna a mezzo stampa e a mezzo tv, si accusano gli avversari di ogni nefandezza. Ma mai nessuno era arrivato a tanto. Anche perché l’equiparazione Berlusconi-Hitler Di Pietro non l’ha fatta nella furia di un dibattito dove qualche volta si possono pure perdere le staffe; non l’ha fatta neppure davanti a uno di quei microfoni che vengono messi davanti alla bocca all’uscita da Montecitorio. L’ha fatta a sangue freddo, dopo una si suppone meditata riflessione, prendendo carta e penna, mettendo nero su bianco. Di più: l’accusa di nazismo (quella consueta di «fascismo» non rende più, ormai è acqua fresca) l’ha scritta in una lettera al presidente della Repubblica. Un atto formale e diremmo anche istituzionale, dunque.
Ci sarà concesso di cogliere anche una certa incoerenza nell’agire di un uomo politico che, per dare del nazista al capo del governo, si rivolge a un capo dello Stato al quale ha appena dato praticamente del mafioso? Perché questo è il Di Pietro di oggi. Ed è un uomo che nonostante certi toni gode evidentemente di un grande credito, fa l’anti-sistema ma nel sistema «sembra» essere perfettamente a suo agio, accendi la tv e chi vedi? Di Pietro. Giri canale e chi vedi? Di Pietro. Lo intervistano tutti, da Mentana a Santoro alla Gruber, e forse mi sbaglierò ma di domande puntute non ne ho sentite. È che Di Pietro sta vivendo una seconda giovinezza. O forse è meglio dire una seconda Grande Occasione. La prima fu ovviamente quella del ’92, lo scoppio di Mani Pulite, l’elevazione a eroe nazionale, le scritte sui muri «Di Pietro salvaci», le fiaccolate per lui, le copertine di Time.
Erano tempi talmente dorati per Tonino che poteva perfino rifiutare le interviste o le comparsate tv: tanto, di lui si parlava sempre, e sempre bene. In quegli anni godeva di una popolarità senza eguali. I sondaggi chiedevano: di chi vi fidate di più, del presidente della Repubblica, degli scienziati, del Papa o della Madonna pellegrina? E il novantacinque per cento degli italiani rispondeva: di Di Pietro. Baciato da improvvisa fortuna, l’uomo di Montenero di Bisaccia aveva solo l’imbarazzo della scelta su come capitalizzare tanta popolarità. Quando lasciò la magistratura, tutti pensavano che sarebbe entrato in politica. In quegli anni fui incaricato di seguirlo come un’ombra dal giornale per cui lavoravo, il Corriere. Ricordo un viaggio insieme a Trieste. Lui, fresco reduce di dimissioni da pm, era stato invitato a presentare un libro scritto non mi ricordo neanche più da chi. Del libro non fregava niente a nessuno: tutti, alla presentazione, aspettavano lui, lo volevano vedere, sentire, toccare. Non aveva la scorta: arrivammo su una Panda e dovemmo farci largo tra una folla che rischiava di schiacciarci, la gente per fortuna pensò che io fossi un poliziotto in borghese e ci lasciarono passare, ma con che fatica.
Dopo andammo al ristorante e, per evitare di incontrare altri fans troppo affettuosi, decidemmo di tornare in albergo a notte fonda, a piedi, attraversando mezza Trieste. Mi parlò del suo futuro imminente: si vedeva presidente di una Repubblica presidenziale, pieni poteri o giù di lì. Ma Di Pietro buttò via, con un errore dopo l’altro, il biglietto della lotteria che la sorte gli aveva messo in tasca. Passò in seconda fila, poi in terza, poi in quarta. Parlamentare, sì, perfino ministro, ma non certo quel protagonista che tutti ci aspettavamo che sarebbe diventato. Adesso il destino gli ha offerto un’altra chance: la sinistra è in crisi nera, quella estrema è addirittura fuori dal Parlamento, e lui ha l’opportunità di diventare la sola voce efficace e visibile dell’opposizione. Se la sta giocando alzando i toni, attaccando il Quirinale, vedendo i lager con il filo spinato e magari i vagoni piombati.
Malissimo, se la sta giocando. Forse perché non ha i mezzi per andare oltre la denuncia dei peccati altrui, o forse perché nel suo Dna c’è qualcosa che lo porta all’autodistruzione, a buttare via tutti i biglietti vincenti della lotteria.