Modigliani l'Africano? No, era quasi un rabbino

Gli occhi vuoti delle sue figure non rimandano alle maschere delle culture negre e al primitivismo, ma alla mistica ebraica. Ai disegni dietro i suoi quadri l'artista aggiungeva spesso segni cabalistici

Modigliani l'Africano? No, era quasi un rabbino

Modigliani, demoniaco e divino. Quanto al demoniaco, sappiamo già tutto. Modigliani l’angelo maledetto, lo sciupafemmine, il fatale sonnambulo, l’eccezionale tossicomane è diventato una leggenda pop, il suo volto che profetizza James Dean, Jack Kerouac e Heath Ledger è stampato sulle magliette come l’icona della vita intensa ed esasperata, succhiata fino al midollo, dell’infanzia scomparsa, della giovinezza sacralizzata dai greci. «Il nostro Modigliani, o Modì come veniva chiamato da tutti, era un rappresentante caratteristico e geniale della bohème di Montmartre; forse l’ultimo, vero bohémien», ricorda l’ennesimo amico, Ludwig Meidner, in quell’epoca confusa in cui l’arte si è fatta anche a colpi di gossip, di stupefacenti e di provocazioni studiate sul tavolo del gallerista.

Del demoniaco sappiamo fin troppo, ci manca il divino. Cioè l’Amedeo Modigliani ebreo, nato a Livorno, sede di una notevole comunità ebraica, circonciso come vuole il rito, figlio di un Modigliani osservante e di una madre colta, nobile, libertaria. Amedeo si vantava a Parigi di discendere direttamente da Baruch Spinoza, in realtà il bisnonno, Giuseppe Garsin, era figlio di Regina Spinoza, ebrea sefardita (cioè di origine spagnola o portoghese) non imparentata al genio filosofo. Eppure, non è casuale che Amedeo si fosse architettato una discendenza fittizia con Spinoza, ebreo sui generis che lotta, si sforza per recuperare l’ebraicità smarrita salvo essere cacciato a frustate dalla sinagoga, l’ebreo che toglie l’elezione agli ebrei. Spinoza è un genio addirittura pre-romantico: sceglie la solitudine ostica e assolata, rifiuta le cattedre accademiche, non pubblica quasi nulla, è un pensatore profetico e portentoso, che non si adatta al mondo, che rifiuta il modo d’intendere degli uomini di mondo. Non sembra il ritratto di Modì?

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Parigi è una città furiosa, che esalta gli artisti, che ghiaccia qualsiasi sofisma religioso. Modigliani, d’altra parte, è un ebreo eccentrico (come Spinoza), che urla ai quattro venti la propria appartenenza ebraica, ma che è autore di un’opera evidentemente profana, priva di ambizioni mistiche. Eppure, ci avvisa Giorgio Alberti in un articolo colmo di spunti (Modigliani e la cabbalà, nel catalogo della mostra «Amedeo Modigliani. La vita in immagini», Lugano 2006), «nei dipinti e sul retro dei suoi quadri si scoprono caratteri ebraici o segni cabalistici»: come la mettiamo? Siamo ancora nel centro del paradosso: l’ebraismo sembra non permettere l’arte, intesa come l’esuberanza creativa, personale, divina di un artista. La via di fuga è proprio la cabbala, che «porta a un simbolismo anatomico eccezionalmente spinto, che non indietreggia anche di fronte alle immagini più audaci», che a tratti sfocia in un «problema che è anche quello del panteismo» (Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino 1993). Grazie alla cabbala si può interpretare (e rappresentare) Dio. E il centro pulsante, nevralgico della cabbala ebraica (sviscerato da Gershom Scholem, e più di recente approfondito da Moshe Idel), è proprio lo Zohar, o meglio, il Sèfer ha-Zohar, il Libro dello splendore, sublime e catastrofica enciclopedia mistica compilata enigmaticamente alla fine del XIII secolo in Castiglia, costituito da una fascina incredibile di «libri nel libro», che a volte sono racconti o peripezie ultracelesti, altre volte sono commenti biblici più o meno ortodossi, altre ancora sono formule oscure, oracoli, frammenti di sapienza sepolta, scritti in un aramaico inventato, farcito di biblismi. Il libro (un vero e proprio labirinto che ha fatto la felicità di un narratore polimorfico come Jorge Luis Borges) sarebbe stato collezionato dal cabbalista spagnolo Mosè de Leon (ma l’identità dell’autore è oscura quanto il libro), e costituisce il sale di tutta la cabbala, che vi è interamente tematizzata.
Impossibile che Modigliani, lettore strepitoso, che recitava a memoria la Divina commedia, che non si accontentava di D’Annunzio e di Nietzsche (comunque adorati), ma studiava Leopardi e Petrarca, Verlaine e Baudelaire, Lautréamont e Ibsen, poi Bergson e Bakunin, Kropotkin e Uriel da Costa, addestrato da un cabbalista come Benamozegh non conoscesse, per lo meno di riflesso, lo Zohar. Di certo Modì «aveva partecipato a Firenze, all’età di quindici anni, a sedute spiritiche» (Alberti), s’interessava di occultismo, studiava Plotino, secondo Schwarz (che commenta il disegno Venere che corre), «con fulminante concisione egli sintetizza così l’insegnamento basilare della Kabbalah e dell’alchimia». In una lettera piuttosto celebre, rispondendo alla domanda di Survage a cui nel 1918, a Nizza, aveva fatto un ritratto con un occhio cieco, Modigliani scrive, «Perché con uno guardi il mondo, con l’altro guardi dentro di te». Risposta da sapiente cabbalista.

Per questo, più che al primitivismo e alle maschere negre, occorre guardare nei gangli dello Zohar e nei recessi della Cabbala per scovare il genio di Modigliani. Il quale, con sobrietà ebraica, sembra ridurre in segno alcuni concetti cabbalistici.

L’occhio vuoto dei ritratti di Modì richiama la disciplina di Rabbi Yose quando intima: «Se un uomo si impegna a studiare la Torah quanto deve, durante il sonno la sua anima è trasportata nei mondi superni, dove apprende gli aspetti profondi della Torah». Lo sguardo del mistico è sempre «vuoto» per l’uomo comune, perché precipita costantemente nei segreti di Dio.

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