Modì sembra uscito da un romanzo. Bello, giovane, bohémien, squattrinato. Hashish, assenzio, modelle, e la morte per tisi e droga a trentasei anni. E la sua ultima donna, Jeanne Hébuterne, suicida al nono mese di gravidanza, due giorni dopo di lui. E, tutto sullo scenario della Parigi inizio XX secolo. La leggenda rimane intatta un secolo dopo, nonostante la figlia stessa - Jeanne come la madre - avesse cercato di sfatarla con il suo libro, Modigliani senza leggenda, pubblicato a Firenze nel 1958. Niente da fare, Modì è proprio un pittore maudit, maledetto. Come Caravaggio, Van Gogh e Gauguin. Perché?
Per tante ragioni. Primo, è bello, carnale, la giacca di velluto lisa per le lavature, la camicia bianca, i capelli scuri, il foulard rosso al collo, lo sguardo intenso, affascinante, dominatore. Una famosa foto lo mostra nel 1915 trentenne nel suo misero studio parigino, forse quello di rue Ravignan 13, fogli per terra, qualche tela appesa, disordine. Ma i suoi occhi vivaci e penetranti, rivelano litaliano colto e ribelle, che fa fatica, come diceva lui stesso, ad «assuefarsi alla luce di Parigi... una luce avvolgente», con cui cerca di rendere «temi in viola, arancione, ocra», come i fauves, Matisse, Derain. Colori che non rispondono, che non riesce a «far cantare per ora». E allora, lo si immagina dallaltra parte di quel piccolo atelier, dove una giovane modella posa per lui, accanto ad una stufa. Passano giorno e notte su uno scalcagnato divano, bevono vino, fumano, fanno lamore, e poi ecco, emergere la tela con un nudo ocra intenso (Nudo rosso), sdraiato a braccia aperte, a offrirsi con tutta la sua carica erotica. Uno dei tanti, in cui di francese cè solo la donna, con le sue labbra rosse, o addormentata, sfinita. Il resto è Italia, Tiziano con le sue Veneri, Giotto con i suoi volumi, la linea fiorentina e i colori macchiaioli, di Fattori, ad esempio. Questo strano miscuglio pittorico, che rivive tutta la tradizione italiana e toscana, accanto a fauvismo, nascente cubismo ed espressionismo, senza lasciarsi sfiorare, è unaltra nota di fascino. Come quei lunghi colli delle parisiennes, che nascono dalle Madonne toscane mescolate allarte negra, quei nasi squadrati come gli antichi egizi, quegli occhi inespressivi come le statue classiche.
Figure che hanno radici lontane, nate da un lungo, inconscio, tirocinio, cominciato a Livorno, con la stessa vita di Amedeo Modigliani che viene alla luce il 12 luglio 1884, quarto figlio di Eugenia Garsin, una giovane e colta ebrea e Flaminio, imprenditore ebreo in dissesto. Il giorno delle doglie di Eugenia, lufficiale giudiziario sta pignorando i mobili. Sul letto della partoriente, unico posto intoccabile, si ammucchiano oggetti preziosi, il resto finisce via. Comincia così, sotto una stella maligna, la vita di Amedeo detto Dedo. Famiglia brillante e inquieta, nonno che lo porta a veder musei e zie che lo fanno studiare, madre che lo coccola perché cagionevole di salute e fratelli con solide posizioni e protettivi. Mamma lo fa viaggiare e scrive novelle per sbarcare il lunario e curarlo. Poi ci sono gli studi alle Accademie di Belle arti di Firenze e Venezia. «Giovinetto di belle fattezze e di volto gentile...vestito con parca eleganza», lo descrive nel 1903 Ardengo Soffici, che lo incontra a Venezia tornando da Parigi.
Poi, lo strappo del cordone ombelicale. Il tuffo nella Parigi cosmopolita, della letteratura e dellarte in fermento, dove gli atelier sono squallidi alveari come il Bateau-Lavoir o la Ruche.
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