Chi pensa che la pallina della roulette della giustizia italiana nel caso del Lodo Mondadori si sia fermata l’altro ieri si sbaglia: vent’anni non bastano ancora, la parola finale dovrà essere pronunciata dalla Cassazione. Nel frattempo la «speranza» di Fininvest per evitare un clamoroso via vai di assegni per cifre iperboliche, risiede nello stesso tribunale che ha appena emesso la condanna e che può, a sua discrezione, concedere la sospensione dell’esecutività della sentenza dietro concessione di adeguata cauzione, esattamente come accaduto in primo grado.
Logica vorrebbe che gli stessi motivi che hanno condotto il tribunale a congelare il pagamento dopo la prima sentenza debbano essere alla base di un nuovo rinvio, infatti un esborso in contanti di tale entità, anche se la cifra fosse nelle disponibilità del «provvisoriamente condannato», potrebbe produrre danni irreparabili.
Tuttavia, spesso, la logica non basta. Astraendosi dalla politica e provando a ignorare i nomi dei protagonisti di questa vicenda, possiamo però capire perché moltissime imprese internazionali non si sognino neppure di investire nello Stivale.
Freddamente considerando le cose, abbiamo un’azienda Alfa, costretta a pagare un risarcimento a Beta per una questione avvenuta vent’anni fa (primo paradosso: la prescrizione esiste anche nel civile, se da domani dovessimo scoprire che la nostra azienda è a rischio citazione per fatti del novanta staremmo freschi), presumendo una colpevolezza penale mai dimostrata in tribunale (secondo paradosso: né la società Alfa né il suo proprietario Tizio sono mai stati nemmeno processati con dibattimento per i fatti in questione), prevedendo un danno superiore al valore totale dell’azienda «incriminata» (terzo paradosso: i titoli degli «editoriali» sono crollati negli anni, un risarcimento di questo tipo è come stabilire, per non aver avuto la possibilità in passato di comprare a prezzo pieno una villetta sul mare a Fukushima, un prezzo maggiore di quello dell’intera casa).
Il bello (o il brutto), però, è che non finisce qui: capita, infatti, che la sentenza di primo grado sia stata decisa per un ammontare di oltre settecento milioni di euro, una cifra che non lascerebbe indifferente nemmeno la Microsoft, «ad occhio» da un magistrato privo di alcuna specifica competenza in complesse questioni economiche e che, anche agli occhi benevoli della Corte di Appello, scopriamo che ha «sbagliato» di circa duecento milioni. Un’enormità. Capita anche una sentenza che, in pratica, afferma che in un collegio di tre, due sono burattini (e sarebbe interessante a questo punto sapere se la cosa vale sempre e anche in quest’ultima decisione abbiamo un protagonista e due cloni). Altre sono le stranezze, ma è probabile che il nostro investitore estero abbia già a questo punto chiuso il faldone Italia e abbia iniziato ad aprirne un altro scuotendo la testa. Fin qui le criticità «oggettive».
Inutile, comunque, ora entrare nel merito della questione Fininvest-Cir, tuttavia questi paradossi possono ispirare correttivi da inserirsi nella riforma della Giustizia colpevolmente sempre rimandata dal centrodestra.
Primo: responsabilità civile dei magistrati. Solo il costo della fidejussione a garanzia dei duecento milioni di «errore» del giudice di primo grado (ipotizzata in un conveniente 1% all’anno) vale circa quattro milioni. Dato che se non è negligenza grave stabilire cifre del genere senza perizia niente lo è (equivale ad operare a cuore aperto senza esami precedenti), senza la certezza dell’impunità forse si vedrebbero meno sentenze «ad occhio», stante il rischio di dover sborsare di tasca propria qualche milione. Secondo: stabilire l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione come accade nella maggior parte del mondo civile. Il giudice Vittorio Metta era stato in precedenza assolto da un tribunale; come si possano derivare certezze postume da vicende, con prove tanto evanescenti da meritarsi assoluzioni piene in diversi gradi del procedimento, non è dato sapere.
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