Scienze e Tecnologia

Il mondo smette di lavorare: gioca con il Pac Man di Google

Il videogame più popolare degli anni Ottanta diventa il logo di Google. Così milioni di appassionati si distraggono dall'ufficio e passano il tempo a divertirsi come da bambini. Risultato: 5 milioni di ore perse al giorno, pari a 120 milioni di dollari

Il mondo smette di lavorare: 
gioca con il Pac Man di Google

Accendi il computer e trovi te stesso piccolo: la bocca, le pillole da mangiare, i fantasmini da seminare. Pac-Man. Che fai, non giochi? Impossibile. L’infanzia tecnologica di una generazione intera ha mandato in tilt gli uffici di tutto il mondo, ha fatto perdere soldi, ha creato una congrega globale di fannulloni. Tutti così: www.google.com e invece di entrare nel futuro, torni indietro. Dieci, venti, trent’anni fa. Eri un bambino o un adolescente con l’Atari o il Vic 20 o il Commodore 64. Infilavi la cartuccia nel computer e aspettavi. «Si deve caricare», era la frase magica che dicevi sempre all’amico che ancora non s’era alfabetizzato con l’informatica e ti invidiava. A un certo punto compariva: Pac-Man. Semplice, il numero primo del videogame: tu eri una bocca che doveva mangiare tutte le pillole disseminate in un labirinto con i fantasmini che ti inseguivano. Se ti raggiungevano eri morto, sennò entravi in una casetta e passavi di grado. Banale, facile, intuitivo. Space Invaders piaceva solo ai maschi, Pac-Man era unisex: il primo approccio alla tecnologia anche per tutte le nostre amiche o compagne di scuola.
Tutto questo oggi. Non sei più nella tua camera, ma in ufficio. Negli uffici. Milioni di persone, milioni di pacmaniaci che ritrovano la loro storia. Di nuovo: che fai, non giochi? Abbiamo giocato e adesso ci dicono quello che abbiamo combinato: 5 milioni di ore di lavoro perse al giorno, cioè 120 milioni di dollari di perdite globali per l’economia. Invece di mandare avanti il pianeta, siamo tornati indietro in un’altra dimensione. L’ha spiegato la società «Rescue Time», che ha analizzato quanto tempo in media i dipendenti di tutte le aziende con accesso internet hanno trascorso sull’homepage di Google: prima dell’avvento del logo Pac-Man, la maggior parte degli internauti effettuava 22 ricerche su Google e ognuna durava non più di 11 secondi. Dopo il 21 maggio il tempo medio ha toccato i 36 secondi. Moltiplicando questo tempo per i 504 milioni di utenti del motore di Mountain View si raggiunge la cifra di 4,8 milioni di ore lavoro. Assumendo che una persona in media è pagata l’equivalente di 25 dollari l’ora, Google è costato alle imprese 120 milioni di dollari al giorno.
Nessuno si sente in colpa: certe cose non si decidono. È un richiamo ancestrale. Oggi c’è il 3D che ti porta dentro lo schermo, in un altro mondo e in una nuova dimensione. Tu, Avatar e tutto il resto. Eppure milioni di persone nel mondo per qualche giorno sono entrate nel futuro di una ricerca su Google per prendersi il loro passato. Perché è successo che Google ha festeggiato i trent’anni di Pac-Man convertendo il logo del motore di ricerca in una versione interattiva del gioco creato nel 1980. Doodle è la parola per capire: una deformazione del nome più famoso di internet che identifica quelle volte in cui all’apertura della pagina non c’è la classica scritta G-O-O-G-L-E, ma un disegno, un fumetto, una novità: succede a Capodanno, a San Valentino, ma anche nell’anniversario della nascita di grandi pittori, musicisti o scrittori. Tutti quelli che hanno tempo portano il loro mouse su quel disegno e scoprono di essere un po’ più ignoranti: «Ma va? Oggi è il compleanno di Rossini?». Ecco, per la prima volta, però, il doodle si è animato in una versione interattiva: dal 21 maggio e per qualche giorno ha reso omaggio al 30° anno della nostra iniziazione computerizzata.
È stato diverso: la materializzazione del desiderio di tornare piccoli. Di nuovo tu col tuo amico, con tuo fratello, con tua sorella. Non si doveva neanche caricare. Tutto pronto per te. Irresistibile, ovviamente. Ci siamo messi tutti a giocare: non mentite, perché non siete credibili. Ci siamo ritrovati con i jeans col risvolto, con le felpe Best Company e con le cinture El Charro. Come se stessimo vivendo tutti il nostro Notte prima degli esami. Le cuffie, il walkman, i Duran Duran. Cioè la retorica nostalgia anni Ottanta mescolata alla tensione verso il futuro che quell’era ci ha regalato. Il joystick immaginario, il monitor nero e verde di una volta: il ricordo reale di una stagione indimenticabile per tutti. Perché Pac-Man è stato il primo fenomeno globale, l’approccio della massa al videogame. Quella massa siamo noi: trenta-quarantenni che abbiamo rimesso in moto le nostre dita per riprenderci il nostro labirinto e scacciare i fantasmi.
Dicono che non s’aspettavano tutto questo successo a Google. Dicono, perché lo sapevano. Pac-Man è un evergreen, il Via col vento dell’informatica: ogni volta che ne parli o lo rifai vedere non delude mai. Ascolti e pubblico, anche se sai le battute una per una, anche se ti ricordi la smorfia di Rossella O’Hara. Pac-Man è così: la consapevolezza di conoscere trucchi e trucchetti non ti toglie l’irrefrenabile voglia di giocarci. Non cerchi di vincere, cerchi semplicemente te stesso. Una certezza, una voglia di conferma. Io ci sono e sono io. Una seduta psichiatrica collettiva.

Un po’ cara, in effetti.

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