Dopo il collasso dell'ultima tregua a Gaza e l'apparente cattura di un soldato israeliano, la parole di Benjamin Netanyahu all'alleato americano impegnato da settimane a cercare un cessate il fuoco sono state dure: «Non dubitate mai più di me» quando la questione riguarda Hamas. Il movimento islamista palestinese che controlla Gaza ha ammesso d'aver portato a termine venerdì un agguato contro soldati israeliani nel Sud della Striscia, ma sostiene che sia avvenuto prima della cessazione delle ostilità, e nega d'avere fatto prigioniero un militare.
Il premier israeliano avrebbe chiesto al segretario di Stato americano John Kerry di non forzare per ora una tregua nei combattimenti, che vanno avanti dall'8 luglio e hanno causato la morte di oltre 1.500 persone a Gaza e l'uccisione di 63 militari israeliani. Ora, un soldato disperso rappresenta una svolta drammatica del conflitto. Israele ha fatto sapere che non cercherà più una tregua negoziata con Hamas e si orienta verso una cessazione unilaterale delle ostilità. Gli Stati Uniti hanno accusato Hamas di una violazione «vergognosa» del cessate il fuoco e venerdì il presidente americano Barack Obama ha detto che se la comunità internazionale non ha fiducia nella capacità del movimento palestinese di onorare una tregua, «sarà molto difficile rimettere in piedi un cessate il fuoco». Da settimane il capo della sua diplomazia Kerry lavora senza sosta facendo pressioni sulle cancellerie di tutta la regione per mettere fine alla guerra.
Gli Stati Uniti però navigano in un Medio Oriente trasformato dalle rivolte arabe del 2011, che hanno cambiato intensificato fratture una volta soltanto latenti. Così, le divisioni tra i suoi alleati lasciano Washington senza gli appigli di un tempo, quando i diplomatici del dipartimento di Stato sapevano con certezza a quale porta bussare per garantire il successo di una trattativa.
La costruzione di una tregua è impantanata in una serie di lotte tra poteri regionali, ciascuno alla ricerca di una vittoria diplomatica capace d'imporre la propria influenza su un mondo in trasformazione. E Kerry, con la sua aria mite media tra i mediatori prima di mediare tra i nemici sul campo. L'Egitto è il giocatore più di rilievo. È un alleato tradizionale dell'America anche adesso che a palazzo siede Abdel Fattah Al Sisi e non più Hosni Mubarak. La sua avversione però per l'altro protagonista delle mediazioni, il piccolo Qatar, ricco di danaro ma non di peso diplomatico, è radicata e reciproca. Doha è l'unico Paese con contatti credibili con Hamas, per l'Egitto costola di quei Fratelli musulmani che reprime in casa. L'emirato, sostenitore anche finanziario della Fratellanza, è interessato a prevalere in questa tenzone diplomatica e a uscire dalla battaglia come negoziatore definitivo. Sulle posizioni egiziane e uniti al Cairo nell'ostilità ai Fratelli musulmani e al Qatar, ci sono Giordania, Emirati Arabi e Arabia Saudita, il cui sovrano ha da poco criticato «il massacro collettivo» a Gaza, senza però condannare Israele, in una prima assoluta per la sua monarchia.
Le divisioni del Levante mettono anche la Turchia, altro Paese con contatti diretti con Hamas, in un confronto ostile con l'Egitto. Il premier Recep Tayyip Erdogan ha attaccato in questi giorni il presidente egiziano Sisi, definendolo «un tiranno illegittimo» che si comporta in maniera «insincera» nella crisi di Gaza. I rapporti tra Ankara e il Cairo si sono inaspriti dopo la deposizione nel 2013 da parte dell'esercito egiziano dell'ex rais Mohammed Morsi, membro di quei Fratelli musulmani cui la Turchia era alleata.
In seguito alla cattura del soldato israeliano, l'America ha «implorato» Doha e Ankara d'intercedere con i vertici di Hamas per la sua liberazione e lavorare a un nuovo cessate il fuoco, che sembra per ora restare intrappolato nelle maglie di nuove e vecchie ostilità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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