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Donna si lamenta per moschea "rumorosa": condannata per blasfemia

Dal 2004, 147 persone sono state imprigionate in Indonesia con l’accusa di blasfemia. Per tale reato, la pena può arrivare fino a cinque anni di reclusione

Donna si lamenta per moschea "rumorosa": condannata per blasfemia

In Indonesia, il più popoloso Paese musulmano al mondo, una donna è stata condannata per “blasfemia”. La colpa? Essersi lamentata per il “troppo rumore” prodotto dagli altoparlanti della moschea situata vicino alla propria abitazione. Le associazioni per i diritti umani hanno criticato il verdetto e hanno accusato le autorità di volere impiegare la normativa anti-blasfemia per “zittire le minoranze”.

La donna condannata si chiama Meiliana, ha 44 anni ed è di etnia cinese. Costei, di religione buddhista, si è vista infliggere 18 mesi di carcere dalla Corte distrettuale di Medan, isola di Sumatra. Meiliana era stata arrestata a causa delle sue continue lamentele nei confronti dei responsabili della moschea situata a pochi metri dalla propria casa. Le proteste della donna erano dovute all’eccessivo rumore prodotto dagli altoparlanti del luogo di culto. Tramite questi ultimi, i muezzin rivolgevano ai fedeli, cinque volte al giorno, l'adhān, la chiamata alla preghiera. Mediante gli stessi altoparlanti, i responsabili della moschea trasmettevano in diretta a tutto il circondario i sermoni del venerdì, i quali possono durare anche più di mezz’ora. Meiliana sosteneva che il rumore emesso dal luogo di preghiera fosse “oltre la soglia della tollerabilità”. Le sue lamentele contro gli altoparlanti sono state considerate dalla Corte distrettuale di Medan come “offese all’Islam”. Di conseguenza, i magistrati hanno applicato le disposizioni della legge anti-blasfemia, condannando la donna a 18 mesi di galera. Secondo un portavoce della Procura, l’imputata avrebbe “compreso la gravità del proprio comportamento” e avrebbe “implorato con le lacrime agli occhi” il collegio giudicante affinché la perdonasse. L’avvocato di Meiliana, Ranto Sibarani, al contrario, ha bollato come “privo di fondamento” l’impianto accusatorio, promettendo battaglia in sede di appello, davanti alla North Sumatra High Court.

Le critiche espresse dal legale nei confronti della tesi della Procura sono state condivise da Amnesty International Indonesia. Usman Hamid, esponente della ong, ha dichiarato: “Lamentarsi per il troppo rumore non può essere interpretato come una offesa alla religione. La sentenza emessa dalla Corte distrettuale di Medan è ridicola. È una palese violazione della libertà di espressione.” Secondo Hamid, le autorità indonesiane, mediante una “arbitraria applicazione” della legge anti-blasfemia, mirerebbero a “ridurre al silenzio” le minoranze etniche e religiose. Human Rights Watch ha evidenziato il fatto che, dal 2004, 147 persone sarebbero state incarcerate a causa di tale normativa. L’Islamic Community Forum, associazione che si batte per la tutela dell’Islam “ortodosso”, ha invece definito “troppo lieve” il provvedimento. La legge anti-blasfemia, infatti, prevede una pena massima di cinque anni per chiunque osi offendere la religione dominante in Indonesia.

Nel 2014, con l’inizio della presidenza di Joko “Jokowi” Widodo, le incriminazioni formulate in base alla controversa normativa avevano incominciato a diminuire. A partire dal 2017, tuttavia, l’offensiva giudiziaria contro i responsabili di “offese all’Islam” ha ripreso vigore. In quell’anno, la legge anti-blasfemia ha mietuto una “vittima eccellente”: Basuki Tjahaja Purnama, all’epoca governatore di Jakarta.

Nel maggio del 2017, egli è stato condannato a due anni di carcere per avere “dileggiato il Corano” durante un comizio.

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