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Erdogan accusa Berlino: islamofobia sugli armeni. Ma gli affari continuano

Per i turchi la condanna tedesca è un'ingerenza politica: "Sensi di colpa per l'Olocausto". Però i forti legami tra i due Paesi eviteranno derive pericolose

Erdogan accusa Berlino:  islamofobia sugli armeni. Ma gli affari continuano

Berlino - L'ultima parola spetta al presidente turco Recep Tayyip Erdogan che giovedì da Nairobi ha promesso fuoco e fiamme. Il giorno dopo l'approvazione quasi unanime da parte del Bundestag di una risoluzione secondo cui i massacri di armeni avvenuti nell'Impero ottomano fra il 1915 e il 1917 sono stati un vero e proprio genocidio, la Germania attende la reazione dell'irascibile capo dello Stato turco. A caldo Erdogan ha ritirato il proprio ambasciatore a Berlino per consultazioni: l'emissario è partito alla volta di Ankara nel primo pomeriggio di giovedì e non è dato sapere quando tornerà a Berlino. Con la sua partenza Ankara esprime tutta la sua contrarietà al testo approvato coi voti dall'intero arco parlamentare tedesco. Allo stesso tempo Erdogan ha abituato Europa e Medio Oriente a un uso muscolare dei diplomatici, ora convocando quelli degli altri, ora ritirando quelli propri. La spaccatura dovrebbe quindi restare simbolica. D'altronde simbolico è l'atto del Bundestag: per Ankara si tratta di un'odiosa ingerenza politica nella storiografia turca. Il governo di Binali Yildirim, appena insediato primo ministro turco considerato un fedelissimo di Erdogan, ha parlato di turcofobia e di islamofobia, per poi ricordare come la mozione sia il frutto dei sensi di colpa dei tedeschi per i massacri da loro compiuti «dalla Namibia all'Olocausto».

Impegnata in una guerra senza frontiere con i curdi del Pkk, incuneata in una regione instabile e governata da Erdogan con il pugno di ferro, la Turchia vive una fase di accesso nazionalismo e la reazione del governo non poteva essere diversa. Allo stesso tempo il voto del Parlamento tedesco non sembra destinato ad avere ripercussioni sostanziali nel rapporto turco-tedesco. Il caso della Francia fa scuola. Nel 2011 l'interscambio franco-turco ammontava a 12,4 miliardi di euro. Quello stesso anno l'Assemblée Nationale riconobbe ufficialmente il genocidio armeno, scatenando la rabbia di Erdogan che ritirò l'ambasciatore: eppure nel 2015 gli scambi Parigi-Ankara erano cresciuti a quota 13,8 miliardi.

E se la Francia è il sesto partner commerciale della Sublime Porta, la Germania è il primo con un interscambio in costante crescita che nel 2015 ha raggiunto i 36,4 miliardi. I rapporti fra i due paesi non sono poi solo commerciali, ma anche umani. La Repubblica federale ospita tre milioni di cittadini di origine turca, ai quali il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, si è rivolto venerdì dicendo «siete e resterete parte del paese». In gioco c'è anche la liberalizzazione dei visti, oggi necessari ai cittadini turchi per viaggiare nell'Ue. In cambio dello stop al flusso di profughi siriani verso l'Europa, Merkel ha promesso a Erdogan un allentamento al regime dei visti, un obiettivo appetibile sotto il profilo dei commerci e più realistico del futuro ingresso della Turchia nell'Ue. La fine dell'accordo dello scorso marzo Ankara e Bruxelles nuocerebbe dunque a entrambe le parti, e c'è dunque da aspettarsi una reazione parimenti simbolica. Ecco perché venerdì è stata la giornata dei pompieri: «La Turchia e la Germania sono due alleati molto importanti», ha affermato il premier Yildirim. «Il mondo non si aspetti che le nostre relazioni si deteriorino del tutto, ma questo non vuol dire che staremo zitti», ha aggiunto, lasciando immaginare proteste limitate all'espressione orale.

Acqua sul fuoco è stata buttata anche dal ministro degli Esteri tedesco: Frank-Walter Steinmeier si è appellato alla calma e ha espresso la speranza che Turchia e Germania «evitino ogni reazione eccessiva».

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