I marines tornano in Iraq per salvare gli yazidi

Cento uomini atterrano per salvare 30.000 membri della minoranza religiosa assediati

Non è l'intervento in forze che in tanti auspicano, ma i marines rimettono gli «stivali a terra» in Irak. Un contingente di cento soldati, tra cui uomini delle forze speciali, è atterrato con un aereo a decollo verticale sul monte Sinjar, nel nord del Paese. Lo scopo è salvare trentamila membri della minoranza yazida assediata dalle forse dell'Isis. Il segretario di Stato John Kerry lo aveva detto: «Bisogna intervenire in fretta, perché gli yazidi sono a rischio di genocidio». E non ha perso tempo. E anche se il segretario alla Difesa Chuck Hagel dopo la partenza delle truppe Usa aveva escluso la possibilità di un ritorno di truppe sul campo, crescono le pressioni, soprattutto di ambienti cattolici, per un'operazione più massiccia ed efficace dei soli raid aerei e del lancio di aiuti umanitari.

L'Unione europea intanto discuterà oggi della situazione irachena in un consiglio dei ministri degli Esteri straordinari. Ma la Francia già ha annunciato che invierà armi ai curdi in Irak, seguendo l'esempio di Stati Uniti e Gran Bretagna. Anche l'Italia fa pressioni su Bruxelles. Perché sono i peshmerga, le forze combattenti del Kurdistan iracheno, l'unica presenza militare a poter garantire una barriera agli estremisti islamici.

I peshmerga - quelli che affrontano la morte, in curdo - hanno costruito in decenni di battaglie la reputazione di combattenti ben addestrati. Eppure, lo Stato islamico si è mosso agilmente sulla via di Erbil, obbligando l'America a intervenire con raid aerei in sostegno all'alleato. «Lo Stato islamico ha esposto la vulnerabilità dei peshmerga», ha scritto sul Guardian Martin Chulov, reporter che conosce bene le dinamiche della regione. A lui, anonimi funzionari curdi hanno raccontato come la reputazione di alcune unità peshmerga sia «basata su glorie del passato».

I peshmerga sono per i curdi una fonte d'orgoglio, combattenti per l'indipendenza della nazione. Una forza che la Costituzione irachena ritiene parte del sistema difensivo nazionale. Le loro origini sono lontane: alcune unità erano già attive sotto l'Impero Ottomano e si sono rafforzate negli anni Venti con la crescita di un movimento curdo indipendentista. Fin dagli anni Settanta hanno combattuto contro il governo centrale iracheno e la loro lotta contro il raìs Saddam Hussein è diventata più aspra negli anni Novanta. Dagli anni dell'invasione americana in Irak, l'alleanza con Washington resta salda.

Nonostante i passati successi in battaglia, l'avanzata dello Stato islamico ha però sorpreso i peshmerga, già impegnati ad arginare i jihadisti su oltre mille chilometri di confine. «Erano dispiegati su un territorio molto vasto, c'è stato un ripiegamento tattico - ha detto al Giornale Quil Lawrence, giornalista della Radio pubblica americana e autore di Invisible Nation: How the Kurds' Quest for Statehood is Shaping Iraq and the Middle East -. Hanno finora combattuto in zone a popolazione mista, con sacche di sostegno allo Stato islamico, con armi ed equipaggiamento vecchi, di fabbricazione sovietica».

Dopo la presa di Mosul, i miliziani islamisti hanno invece avuto accesso ad armi moderne di fornitura americana, abbandonate nei depositi dai soldati in fuga.

Le forze curde, abituate a combattere contro un esercito convenzionale, in un conflitto asimmetrico tra le loro montagne, sfidano oggi lo Stato islamico, addestrato alla guerriglia da anni in Siria. I peshmerga sono invece lontani dal campo di battaglia da oltre un decennio, ricorda Lawrence: l'ultima volta hanno combattuto con gli Usa contro i miliziani di Ansar Al Islam nel 2003.

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