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“Mangiavo topi per sopravvivere”: l’orrore nei campi di lavoro nordcoreani

Il racconto di una prigioniera che per un anno è stata schiavizzata dal regime: "Pulivo i bagni sporchi a mani nude"

“Mangiavo topi per sopravvivere”: l’orrore nei campi di lavoro nordcoreani

“La Nord Corea è una grande prigione”. Così Park Ji-hyun definisce la sua terra, dopo essere stata imprigionata per un anno in un campo di lavoro. Trecentosessantacinque giorni infernali, fatti di brutalità e vessazioni continue.

La fuga in Cina per trovare una vita migliore non è andata a buon fine: dopo sei anni la donna è stata espulsa e deportata nel campo dell’orrore di Chongjin – uno dei tanti esistenti e attivi sul territorio nordcoreano – con l’accusa di essere una disertrice economica. E in Cina ha lasciato il figlio Chol di pochi mesi, strappatole a forza.

Insieme alla sorella aveva infatti lasciato casa a metà degli anni Novanta durante la grande carestia, di cui ricorda le montagne di cadaveri ammassate nelle stazioni dei treni. Le stime del regime totalitario parlano di oltre 200mila vittime tra il 1994 e il 1998, ma si stima che abbiano perso la vita circa 3 milioni di nordcoreani. Allora il dittatore era Kim Jong-il, padre dell’attuale leader supremo Kim Yong-un.

La donna ha raccontato ad Amnesty International i suoi dodici mesi di prigionia nel lager. “Lavoravamo più duramente degli animali. Abbiamo scavato una montagna per farne campi terrazzati di riso e altro. E non avevano nulla da mangiare. Chi trovava patate crude le mangiava con la terra, altri si nutrivano di serpenti e piante selvatiche. Io sono stata costretta a mangiare topi per sopravvivere”. Soprusi, pestaggi e punizioni erano all’ordine del giorno; lei stessa racconta di aver lavato a mani nude, per giorni, i bagni sporchi.

Il tetano è la sua salvezza. Dopo un’infezione alla gamba Park Ji-hyun lascia il campo di lavoro. Da sola e da clandestina torna in Cina per ritrovare il figlioletto. E qui la sua storia diventa quasi una favola. Riabbracciato il piccolo, parte alla volta della Mongolia per non rischiare di essere rispedita in Corea del Nord. Arrivati alla frontiera, braccati dalle pattuglie di guardia, non riesce a varcare la recinzione insieme al piccolo finché un uomo, in fuga con loro, riuscì a creare un varco per farli passare prima di essere trovati dagli agenti.

Ora Park Ji-hyun vive a Manchester insieme all’uomo che le ha salvato la vita, Chol e altri tre figli.

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