"Sabri ha abbracciato l’Islam radicale in soli tre mesi. All’improvviso non voleva più studiare né lavorare, diceva che studiando o lavorando non poteva pregare all’ora giusta e che non voleva essere in contatto con delle donne. Diceva che la democrazia era da vietare e che bisognava fare la sharia. A casa nostra non abbiamo mai insegnato queste cose, aveva tagliato i ponti con tutti i suoi amici di prima, diceva che non erano bravi musulmani, e che aveva trovato dei nuovi amici, i suoi “fratelli". A raccontarlo al Fatto Quotidiano è Saliha Ben Ali, una donna nata in Belgio ma di origini tunisino-marocchine, madre di Sabri, un 19enne partito nel 2013 per la Siria per combattere a fianco dell’Isis e lì è morto da martire soltanto dopo quattro mesi.
“Un giorno mi sono svegliata e ho trovato il suo letto vuoto. Quattro giorni dopo, siamo venuti a conoscenza che Sabri si trovava in Siria”, spiega Saliha che riusciva a comunicare col figlio solo attraverso Facebook. "Diceva che tutti noi dovevamo pregare, non era più mio figlio ma un robot, parlava come un disco rotto. Io gli ricordavo - prosegue la donna - come stavamo bene tutti insieme, ma lui rispondeva che adesso la sua vita era Allah e che il suo dovere era aiutare il popolo siriano”. Ma Sabri non è sempre stato così anzi aveva tanti amici, amava giocare a basket e "non è mai stato religioso, non sapeva nemmeno come pregare, non parlava l’arabo", spiega la madre che attribuisce la colpa alla situazione del suo Paese: "Qui in Belgio non c’era più spazio per lui anche a causa di una certa discriminazione, del clima geopolitico nel mondo, della stigmatizzazione nei confronti delle persone di origine araba e di fede musulmana, del razzismo". E così si è fidato dei radicali islamici "che gli hanno detto che non c’era posto per lui in Belgio, che solo la religione poteva dargli delle risposte, hanno puntato sulla crisi d’identità di un giovane, perché a 19 anni un ragazzo si deve costruire, ha bisogno di credere in qualcosa, è di questo che Sabri è stato privato”.
"Il problema è il malessere all’interno della nostra società, questa sensazione di non essere accettati in Europa, un terreno molto fertile per i reclutatori, la religione arriva solo dopo. È questo ritorno alle origine ad essere pericoloso, perché è lì che entrano in campo dei veri “manovratori” che tolgono ai nostri ragazzi l’identità nazionale, li rendono un prodotto di uno Stato utopico, del califfato" prosegue la donna che non nega di avere responsabilità in quanto genitore "ma ne ha anche la società sempre più individualista, il governo che ha lasciato che questi ragazzi, molti minorenni, partano da soli e la politica che non fa niente per migliorare il nostro sistema di istruzione“. Ed è per questo che ha fondato l'associazione Save Belgium 538em;"> Society against violent extremism con cui vuole dare "un supporto alle famiglie con un figlio partito o morto in Siria e aiutiamo i genitori che temono casi di radicalizzazione. Poi andiamo nelle scuole e cerchiamo un dialogo con i giovani per prevenire questi fenomeni. Ad oggi fanno parte dell’associazione quindici famiglie e tante madri che vogliono prevenire simili tragedie”.
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